Abissi pedagogici

Un film che si interroghi sulle ragioni della violenza o un film sulla violenza? Entrambi. In un mondo migliore della danese Susanne Bier, parte dall’interessante assioma che la violenza è latente all’interno dell’uomo e ferisce tanto nell’esplicarsi quanto nell’opporcisi ad essa. E lo fa attraverso due storie di famiglie in crisi sviluppando l’intreccio nelle logiche educative tra genitori e figli. Ma non solo. Il film si spinge oltre affrontando un’acuta riflessione sul compito pedagogico del genitore e la difficoltà di educatore all’interno di una società che amplifica le distanze e di conseguenza le incomprensioni. Le esperienze di due famiglie in difficoltà, l’una per la lontananza tra i due genitori entrambi medici ma praticanti reciprocamente in Africa e Danimarca; l’altra con un padre escluso dalla vita del figlio, già autonomo e lucido calcolatore per necessità, con la madre appena morta di cancro. Elias, l’orfano di madre, diventa amico di Christian figlio della coppia di medici e insieme costituiscono un’unità compenetrante a orologeria facendosi forza l’un l’altro, pronta a tutto pur di non sottostare alla legge del più forte (in questo caso del più debole). La Bier affonda il coltello nella piaga contrapponendo la logica buonista dell’insegnamento in vigore, alla cruda realtà (in una scena a trazione anteriore) di un padre che si fa schiaffeggiare passivo da un uomo più ignorante (manescamente parlando) e interpretata dai figli come una mancanza di coraggio invece che come un insegnamento alla non violenza e all’uso della dialettica. Il film prosegue su questi piani: in Africa, Anton (un bravissimo e corrucciato Mikael Persbrandt) combatte contro l’Africa e le sue contraddizioni (ma soprattutto contro se stesso e le sue convinzioni etiche), combattendo le angherie di un carnefice che squarcia i ventri delle donne incinte per scommessa, mandandone un discreto numero all’aldilà, finchè non se lo trova davanti e nella logica deontologica dell’assistenza lo cura, ma poi… Lontani mille miglia all’altro capo del mondo in Danimarca si consuma la violenza di Elias, faccia da bravo ragazzo, fisico mingherlino ma mentalità di un pragmatismo estremo. Se ci sono colpevoli in questo gioco all’ingrosso famelico la Bier li trova nei genitori, ma colpevoli di esserlo, un po’ come il peccato originale. Molto rilievo viene dato al lato psicologico delle azioni e la riflessione interiore delle conseguenze lievitando su momenti empatici di commistione uomo/spazio uomo/natura, agevolata da un supporto sonoro dilatato e intimo. Ottime le interpretazioni e la fotografia accesa. La tensione è alta e cresce sovvertendo il più delle volte tutte le gerarchie tramite l’uso proprio o improprio della violenza. Ci si aspetta un finale devastante quando invece a trequarti film la luce del sole fa capolino nel secco e intricato arbusto narrativo cospargendo di acqua e sapone un finale troppo sbrigativo e risolutivo. Avrebbe potuto trattarsi della risposta europea al capolavoro australiano di Animal Kingdom, si ritrova invece ad essere un buon film sciupone nel finale.

voto: 7

A cazzo di cane (ma anche no)

Aperta campagna. Il giovane Ratzinger sopraffatto dall’emozione per la scoperta del vaccino antipolio non riesce a contenersi e inizia a correre e saltare per i campi. E’ un tripudio di felicità, degno epilogo per la fortunata serie televisiva che chiude i battenti. Sorge però un problema. Dai vertici della rete viene imposto a Renè Ferretti (Francesco Pannofino) di girare tutto al rallenti per aumentare il pathos. Decisamente troppo per lo scafato regista che con uno scatto d’orgoglio abbandona il set lasciando la storica troupe di fatto senza lavoro. Quando ormai tutto sembra perso però Sergio (Alberto Di Stasio), il delegato di produzione, riesce a mettere le mani sui diritti di un importante libro di denuncia e così per il vulcanico Ferretti si aprono le porte della settima arte, il cinema libero sognato da tutti i registi di talento. Sfortunatamente però la realtà si rivela non molto diversa da quella grezza e senza fascino della tv e il nostro eroe della macchina da presa si troverà ben presto a fare i conti con le solite dinamiche rivolte al soddisfacimento delle masse. 
Dopo tre fortunate stagioni televisive arriva la consacrazione cinematografica per il pesce Boris, la dissacrante parodia sul mondo delle fiction di casa nostra che ha saputo affermarsi nel corso degli anni come vero e proprio fenomeno di culto.
Prodotto collaudatissimo, il film non tradisce le aspettative e si presenta esattamente a misura di fan, aggressivo e tagliente anche se meno carico del solito. 
Ovviamente come spesso accade in questi casi la dilatazione dei tempi del lungometraggio comporta una perdita della brillantezza rispetto al format televisivo e anche i personaggi ormai prevedibili divertono meno ma alcune trovate restano comunque geniali ed estremamente divertenti, come ad esempio il frustato Stanis Larochelle (Pietro Sermonti) che pretende di interpretare Gianfranco Fini, personaggio assolutamente indispensabile (a suo dire) in un film che parla del nostro paese.
Nonostante il registro scanzonato però, Boris non risparmia di certo un impietoso commento sul mondo del cinema ormai a pezzi in Italia. Le parole del delegato di rete Lopez (Antonio Catania) “Dopo la tv c’è il cinema, dopo il cinema la radio e poi la morte” sono emblematiche e non fanno che girare il dito nella piaga delle ormai ridottissime produzioni di film per il grande schermo. Certo speriamo che la triade Ciarrapico/Torre/Vendruscolo non ceda alla tentazione del sequel e metta nuovo materiale in cantiere, perchè è con la freschezza delle idee che si combatte la demenza dei palinsesti e non solo…
voto: 6.5 (Dai! Dai! Dai!)

Amore e disagi

Film dal titolo fastidiosamente italianizzato “Lo stravagante mondo di Greenberg” (originale semplicementeGreenberg“), una commedia scorrevole, a tratti acuta e sensibile, grazie ai protagonisti che calzano a pennello uno stereotipo umano ben pensato. Lei è Florance Marr, interpretata da una bravissima Greta Gerwig, (un mix ben riuscito tra Bridget Jones e la Tracy di “Manhattan” per intenderci), una giovane venticinquenne con poche ambizioni, impacciata, dolce, d’una bellezza semplice e un infantile, che lavora come assistente personale presso una ricca famiglia di Los Angeles, alla ricerca di un rapporto che non si basi solo sul sesso casuale e con la passione per il canto. Lui (Ben Stiller) è lo zio Roger che si trasferisce nella villa Greenberg, dopo che la famiglia parte per un viaggio in Vietnam, quarantenne fallito, irresponsabile ed eccentrico, ex musicista, in seguito ad una scelta sbagliata in gioventù, si ritrova nullafacente nella West Coast, dopo una carriera da falegname a New York.Deve fare i conti con degli amici, sposati con prole, che ormai ha perso, con un recente passato in una clinica psichiatrica, con il suo immane egoismo e lo scarso senso di autoironia. Inevitabile l’incontro – scontro tra i due personaggi, attratti dalle reciproche debolezze, complici di una danza emotiva che coinvolge e diverte. Nei precedenti prodotti più newyorkesi di Noah Baumbach (“Il calamaro e la balena” e “Il matrimonio di mia sorella”) la chiave di lettura è la dinamica familiare, complesse relazioni genitori – figli e le criticità educative, in “Greenberg” il tema è più concentrato sull’individuo, sulla forte personalità di Roger narcisisticamente ripiegata su di sé e sulle proprie più banali esigenze, abbastanza nevrotica, un alla Allen, incapace di superare le ansie, i disagi, i fallimenti; ma il tono si fa più sarcastico, a tratti comico, la sceneggiatura è brillante, ma il personaggio risulta troppo marcato, Ben Stiller fa un buon lavoro, ma concentra troppo peso sulla sua figura e il personaggio di Gerwig alla fine riesce meglio, è di più facile lettura e identificazione, ma la commedia regge, piacevole la colonna sonora firmata da James Murphy che incornicia una Los Angeles trafficata e piovosa. Una pellicola leggera e scacciapensieri.


Voto: 6

La numero 72

La donna che canta scritto e diretto dal canadese Denis Villeneuve, è una vicenda complessa, drammaturgicamente fantasiosa, che si scopre a poco a poco in un gioco di intrecci a mosaico pieni di flashback a incastro. Nawal Marwan donna di origine libanese vivente a Montreal, muore lasciando due figli adolescenti a districarsi con un bizzarro nodo testamentario; devono ritrovare il padre e il loro fratello, di cui ignoravano le esistenze e consegnargli delle lettere. Li aiuterà in questo il notaio Lean Lebelle, ultimo datore di lavoro di Nawal nonchè suo caro amico. E così, prima la figlia Jeanne e poi suo fratello Simon, partiranno per il Libano alla ricerca delle loro origini attraverso la resurrezione dell’iter materno. Il film è una spoglia lettura del colorito ignoto di una donna che ha molto sofferto e molto vissuto. Nei suoi trascorsi Libanesi il tragico rotocalco della costruzione di un identità nazionale, scoperta e costituitasi attraverso il sangue dei sui figli, dei propri padri e delle madri. Un Libano crudo e viscerale, intollerante e calorosamente accogliente, raccontato attraverso le vicende di un trentennio nel quale Nawal si vede portare via un figlio, farsi testimone dell’alfabetizzazione, divenire killer, madre ancora violentata e torturata, rinchiusa in una cella a cantare per non sentire le urla delle altre donne torturate a loro volta. Le immagini che ci propone Villeneuve a tratti scalpitano, come l’uccisione della bambina nel deserto o il cecchino ragazzo che uccide altri bambini. La violenza è trattata in maniera realistica e il film gravita sospeso in un deserto di attese e tensioni annunciate. Il viaggio sia interno che esterno ai protagonisti si fa ad ogni passo più arduo e doloroso, e la scoperta del passato una consapevolezza inattesa difficile da accettare. La storia è ciclica e si attende la quadratura del cerchio che puntualmente arriva nel finale. Niente di scontato sicuramente e l’intricato svolgersi degli eventi che richiede una costante concentrazione è un plus così come la presa di posizione neutra dell’accadere storico che regala un tocco (lasciatemi passare il termine) di immortalitàalla vicenda attraverso la mitizzazione della martire Nawal; rimproveriamo forse al regista il crogiolarsi in una narrazione a tratti un po’ prolissa e compiaciuta rispetto ai pochi picchi di asciutta spettacolarità che avrebbero giovato al ritmo a volte latente. Da vedere anche solo per conoscere la cronistoria di un mondo che va di moda diffidare.

voto: 6.5

La poesia eleva lo spirito

In una cittadina della Corea del Sud vive Yang Mija, donna dal piacevole aspetto che si avvia alla vecchiaia dignitosamente, dalle scarse risorse economiche, lavora saltuariamente come badante di un anziano rimasto disabile in seguito ad un ictus, ed abita in un piccolo appartamento con a carico il nipote adolescente (lasciatole da una figlia che vive e lavora in un’altra città) con il quale ha un normale rapporto di confronto-scontro generazionale. Mija vive comunque felice, indossa sempre simpatiche camicie floreali, frequenta un corso di poesia, poiché quando era bambina il suo maestro le disse che sarebbe diventata una grande poetessa, ma non è ancora riuscita a scrivere il suo componimento. Il suo mondo è gentile e colorato, fino a quando non viene risucchiata da un vortice di complicanze e oscurità, un turbine di eventi nefasti riempie la sua semplice esistenza. Lee Chang-Dong racconta (tema presente anche nel suo precedente lavoro Secret Sunshine) la forza della protagonista dalla personalità volutamente enigmatica, anche a causa della sua malattia, che prende coscienza gradatamente dei drammi della vita, e ci mostra un pò alla volta la meschinità e la brutalità dell’uomo in eterno contrasto con lo splendore e la grandezza della natura. La realtà umana è cruda, spietata, c’è morte, dolore, violenza, e non c’è compassione, Lee Chang-Dong evidenzia la piena scissione tra uomo e natura che si avvicinano e si comprendono solo grazie alla poesia, che è esperienza visiva e uditiva, e soprattutto una sfida emotiva, solo il poeta è vicino alla redenzione. Un dramma delicato, sensibile e lineare, ma mai scontato, di un’ambiguità deliberata, vince meritatamente il premio per la miglior sceneggiatura a Cannes 2010. Da evitare comunque la visione al secondo spettacolo, sono pur sempre 140 minuti di pellicola, ricchi di campi lunghi e poetici silenzi.

voto: 6.5

Violenza chewingum condita

Film abbastanza assurdo questo Kick-Ass. Parabola adolescienziale con distinguo tarantiniani, si colloca a metà tra l’action movie alla Rodriguez (a cui deve molto) e il divertissement fumettesco (da cui appunto è tratto). Dave Lizewski, un giovane nerdoso (anche fin troppo stereotipato) incredibilmente simile al Maguire di Spiderman, compra un costume da superereroe e si comporta come tale, mancando però delle caratteristiche strutturali per farlo. Si ritrova così con un bel buco in pancia e incidentato (con omissione di soccorso). Passato sotto i ferri risorgerà in vita con placche di metallo sottocutanee un po’ ovunque, una situazione nervomuscolare quasi azzerata e una fortissima resistenza al dolore, mantenendo però il solito aspetto da sfigatello. Ora, i fondamentali dell’essere supereroe ci sono tutti; con questi innesti non gli rimane altro che farsi riprendere mentre le busca da un gruppo di teppistelli che malmenano un’altra probabile personaccia e rimanere in piedi fino all’arrivo della polizia. In seguito a questo evento, il Nostro diverrà famoso in tutta America come Kick-Ass (grazie a youtube). Da qui una serie di eventi porteranno all’ingresso in campo di altri personaggi, veri o più finti supereroi di Dave, che animeranno e non di poco una credulona New York più spettatrice che contenitore. La cosa che meno si riesce a digerire di Kick-Ass è la mancata presa di posizione su uno stile registico e narrativo chiaro. Il tratto del film è tipicamente teen, ma le esplosioni di violenza sono da grandicelli nonostante chiaramente macchiettistiche. Forse nelle intenzioni questo vorrebbe trattarsi di un pregio, ma all’evidenza dei fatti il gioco non convince e confonde. Detto questo non posso che giudicare l’ipotetica ironia dissacrante (?) del film come un grosso buco nell’acqua. La storia del doppio, l’impossibile da altro e il non possibile da se stessi, è scontato e non aggiunge niente di nuovo al tema. Gli attori sono quasi tutti trascurabili e a poco servono gli scimmiottamenti nei primi primi dello spidermanianoDave. Caso a parte la piccola Mindy Macready (Chloe Moratez), l’assassina e temeraria Hit-Girl, personaggio veramente esagerato che risolleva le sorti del film su cui ci si potrebbe improntare una serie dal successo assicurato. La piccola infatti picchia come un ossessa, uccide un numero imprecisato di persone menomando le restanti, prende pallottole in petto dal padre e riesce anche a comunicare tenerezza. Sbalorditiva! Positive le scene di azione e ultraviolenza, quasi tutte con il coinvolgimento di Mindy e del padre, uno strampalato Nicolas Cage, veramente ben fatte e genuinamente violente, con pacconate messe al punto giusto ed esagerazioni davvero galvanizzanti. Qualcuno si chiederà se è giusto che una bambina di 12 anni perfori cervelli e tagli gambe con il sorriso sulla bocca, qualcunaltro invece ne godrà a prescindere. Un film quindi che si lascia guardare a patto che siate un po’ cazzoni dentro, non cerchiate intellettualismi oltre ciò che si vede e amate le legnate gratuite. Per gli altri, compratevi una Mazda e andatevi a buttare giù da un fosso. Così… per sport.

voto: 5.5