Tu sola dentro la stanza e tutto il mondo fuori

“La vita di Adele” è la storia di una giovane donna, Adele (Adele Exarchopoulos) dalla candida ed irrequieta bellezza alla scoperta di se stessa e del proprio ruolo nel mondo.

Il film è sostanzialmente diviso in due capitoli, il primo, in cui Adele è un’adolescente che si scopre attratta da una ragazza dai capelli blu più grande di lei e con cui darà vita ad un’intensa storia d’amore, ed il secondo, quello della giovinezza, dell’insegnamento, della paura, della solitudine, del tradimento e del pianto.
Difficile per la giovane Adele trovare pace dall’ ardente passione che la spinge, lei divoratrice insaziabile di letteratura, di cibo e d’amore.
Un amore “diverso” ma anche l’imperfezione che la natura produce e figlia della natura stessa.
Dopo “La schivata”, “Cous Cous”, e la “Venere Nera”, Abdellatif Kechiche torna alla regia con questo piccolo capolavoro che è riuscito a conquistare la Palma D’Oro a Cannes 2013 e il mio entusiasmo.  
Mi piace la scelta del regista di stare “addosso” agli attori, all’attrice, con la stessa voracità con cui la ragazza divora la vita, di seguirla mentre dorme, parla, cammina, balla, protesta, mangia e fa l’amore.
Siamo vicini a lei con primi piani strettissimi, sui suoi occhi, sulla sua bocca, sulle sue ciocche di capelli scompigliati, con la forte sensazione di sentire i suoi sospiri, i suoi sorrisi, le sue lacrime come se stessimo ad un passo da lei. Anche il sesso con la sua amante, assoluto ed estremo è espressione di questa fame di vita e di emozioni.
La forza di Kechiche è di raccontare la vita con i tempi della vita stessa, perciò non importa se il film dura quasi 3 ore, perché sarei stato ancora li, ancora adesso, a seguire “la vita di Adele” a seguirla  mentre nell’ ultima inquadratura gira l’angolo e si allontana da noi e dall’ amore perduto.   


Voto 8

Vedere solo il cielo

Premiato dal pubblico del Sundance l’anno scorso, parzialmente snobbato dall’Accademy e tratto dall’autobiografia del giornalista e poeta Mark O’Brien, morto a 48 anni dopo aver passato gran parte della sua vita in un polmone d’acciaio causa polio contratta da bambino, The Sessions si confronta con un tema scomodo e ancora disturbante: il sesso dei disabili. O, se preferite, il diritto al sesso dei disabili. E lo fa senza lanciare proclami, e senza ergersi a opera-manifesto. Non si fa bandiera di nessuna rivendicazione, si limita a raccontare la storia di O’Brien e della sua (sofferta) decisione di avere una vita sessuale. E lo fa magnificamente, con intelligenza, ironia e coraggio. Tant’è che la sceneggiatura dovrebbe diventare oggetto di studio nelle scuole italiane di cinema. I dialoghi tra Mark e l’amico prete sono magnifici, lo stesso quelli con Amanda, badante e suo primo amore.
Il tutto servito in una ricostruzione minimalista del periodo a cavallo tra gli anni Ottanta e Novanta di una California, da tempo immemorabile, terra di ogni sperimentazione sessuale (e qui siamo a Berkeley). E quindi credete che non ci sia una risposta e una soluzione ai bisogni di Mark? E infatti, ecco spuntare una sex therapist, no, non una sessuologa, no, non una terapeuta di quelle che curano attraverso la conversazione e l’analisi. No, la sex therapist è una che insegna ai principianti come si fa l’amore, andandoci a letto.
Nell’incredibile California quindi, non solo c’è la professione della sex therapist, ma anche quella della sex therapist specializzata in disabili gravi. Sicché, quando sullo schermo si materializza Helen Hunt, disposta (a pagamento e in un numero limitato di sedute: sei) a insegnare il sesso a Mark e praticarlo con lui, restiamo un attimino stupiti di come la liberazione sessuale anni Sessanta-Settanta sposata alla cultura dei diritti delle minoranze, sia arrivata così lontano, creando specializzazioni fino a prima impensabili.
Ora, il film è ricchissimo di testi e sottotesti, di quelli che ti pongono di fronte a questioni non del tutto inutili, anzi, però è chiaramente figlio della cultura americana del “puoi avere tutto quello che vuoi, basta perseguirlo con tenacia”, e difatti Mark raggiunge, pur nelle condizioni di disagio estremo in cui si trova, l’obiettivo che si era prefissato. Siamo, quindi, di fronte all’ennesima versione-reincarnazione del Sogno Americano, Mark è l’ennesimo American Dreamer, e a svelarlo è il tono ottimistico e de-problematizzato della seconda parte del film. Vorremmo tanto crederci, insomma, ma, da cinici europei, proprio non ci riusciamo.
John Hawkes domina il film. La prima volta che l’ho visto me ne sono innamorata: timido, allampanato, con barba incolta, vendeva scarpe nel film d’esordio della videoartist Miranda July, Me and You and Everyone We Know, nel lontano 2005. Una presenza sfuggente, di quelle che ti vien da dire “Interessante, io questo qui l’ho già visto da qualche parte, ma dove esattamente?” Di film in film, questa presenza si è addensata in ruoli sempre più visibili: protagonista in film meglio distribuiti e premiati (Un gelido inverno) e The Sessions è, in questo senso, il film della conferma, che ha reso finalmente celebre quest’attore ossuto, alla soglia dei cinquanta, schivo ma con uno sguardo penetrante, di quelli che ti fanno risistemare sulla sedia se li incroci.
Ottima anche l’interpretazione di Helen Hunt (nominata a un Oscar nella categoria Attrice Senza Speranza Ma C’era Un Posto Libero) e di William H. Macy perfettamente a suo agio con una pettinatura improbabile, grandissimo come saggio prete irlandese che capisce che le regole di Santa Madre Chiesa ogni tanto possono e devono essere infrante. 
O quantomeno, aggirate.

voto: 7,5

Ben fatto Tornatore!

Giuseppe Tornatore torna nelle sale. Dopo La sconosciuta del 2006, il suo film più crudele e straziante, dopo Baaria del 2009, il film più grandiosamente mediocre della storia del cinema Italiano,  debutta con il digitale ne La migliore offerta, decisamente più intrigante e coinvolgente. Certo, già dai titoli di testa Ennio Morricone ci trascina in un mondo melodrammatico, quello del regista, che, nonostante abbandoni la bella Sicilia per un’ambientazione  mitteleuropea, non riesce a discostarsi da quello stile barocco  e  talvolta eccessivamente pomposo, che più lo caratterizza. Tutta girata in lingua inglese, una storia dal meccanismo pulito e avvincente vista dagli occhi del protagonista,  figura davvero ben costruita interpretata da  Geoffrey Rush (bravissimo), raffinato banditore d’aste e conoscitore dell’arte, nonché collezionista di ritratti di donne (Tiziano, Raffaello, Modigliani,  Ingres e tantissimi altri) che tiene in sicurezza in un bunker nel suo appartamento, Virgil Oldman, ha delle serie difficoltà a rapportarsi con il reale mondo femminile, nonostante sia un uomo eccentrico, intelligente e apprezzato da tutti, è un uomo solo, fino a che non incontra,  innamorandosi, una giovane con un problema di agorafobia, vive rinchiusa in una villa decadente e maestosa, come uno dei ritratti di Oldman.
I volti muti nei dipinti, la follia di una donna che si nasconde dal mondo, la decadenza dei luoghi, contribuisco a dipingere un quadro carico di sospetti e misteri che non si svela fino alla fine, con una morale amarissima che cela, per pietà, una speranza (o una tragedia?), l’amore, un’opera d’arte unica nel suo essere, poiché irriproducibile, un amore che travolge e distrugge, che riesce a guarire un uomo incapace di provare ogni sentimento per il reale, un amore che inganna. Una continua suspense, che omaggia l’estetica nel senso Kantiano del sublime, ma soprattutto un cinema italiano che abbandona per una volta l’amaro realismo, (finalmente), abbracciando un genere che aveva un po’ dimenticato, (diciamo da Pupi Avati)  la favola nera. Una favola costruita minuziosamente,  un intreccio narrativo carico di tensione tipico di Argento, una regia rigorosa, ma soprattutto un personaggio forte che trascina il pubblico in un incastro fatto di meccanismi, di ingranaggi metafisici,  di intrecci tra il reale (la tragedia) e l’irreale (la purezza dell’arte, che altro non è che mera riproduzione della realtà). Un successo meritato, un Tornatore maturo e intelligente, sempre vagamente baroccheggiante. (Ma dopo Baaria, ci sarebbe piaciuto tutto?)
Voto: 7


voto redazione
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Chiara: 7

P.T. Anderson: uno degli ultimi poeti viventi dell’Occidente

Il secondo conflitto mondiale si è da poco concluso. Freddie Quell (Joaquin Phoenix) è un militare della marina americana che, scosso dall’esperienza bellica, non riesce a tornare alla vita di un tempo. Afflitto da problemi psichici, cerca conforto nell’alcol e nella sregolatezza, finché non incontra Lancaster Dodd (Philip Seymour Hoffman), il “Maestro” di una nuova setta denominata “la Causa”, che tenterà di domarlo.
L’ultimo film di Paul Thomas Anderson, è stato uno dei più attesi alla 69° Mostra del Cinema di Venezia, dove si è aggiudicato due prestigiosi premi: il Leone d’argento per la migliore regia e la Coppa Volpi per la migliore interpretazione maschile ex aequo a Joaquin Phoenix e Philip Seymour Hoffman.
Uno dei film più attesi quindi, ma allo stesso tempo anche più discussi, The Master, ha diviso sia il pubblico che la critica.
Bisogna subito ammettere che questo ultimo lavoro di Anderson spiazza, perché non è quello che ci si aspetta, non è un film – come invece si era detto e scritto da più parti – sulla nascita tra anni Quaranta e Cinquanta di una setta apparentabile a (o echeggiante) Scientology. Anche perché se così fosse, il film sarebbe ben poca cosa. Sì, c’è un guru fondatore di un qualcosa che somiglia a un gruppo di devoti e fedeli alla linea, ma questa strana opera – forse la più differente, inclassificabile, fuori genere e fuori canone di tutta la sua filmografia – è altro, è su altro. È sulla relazione tra due uomini, un Master in posizione dominante e un ribelle, un outsider, che il Maestro vuole ridurre a discepolo o succube. Ma la manipolazione non è così chiara, netta e unidirezionale. Questo intricato rapporto contiene altro, ogni livello ne apre subito un altro ancora, e così via. Forse è un storia di amicizia, di affetto, chissà, anche di amore. 
A me ha ricordato un film come Il servo di Losey, su sceneggiatura di Pinter, anche se Paul Thomas Anderson non ha il dono o meglio la vocazione alla penombra, all’ambiguità, al non detto.
Anderson dimostra ancora una volta di essere uno dei registi più capaci della sua generazione, usando una messa in quadro di forte impatto artistico: ci racconta magnificamente pezzi di America postbellica e quasi eisenhoweriana, con una maniacalità che definirei filologica nella ricostruzione degli ambienti, dei decori, dei volti soprattutto.
Le sequenze iniziali, ambientate sull’isola lasciano incantato lo spettatore; il montaggio è sempre funzionale alla situazione narrativa, specialmente nei punti più drammatici, accompagnato dalla magistrale fotografia di Mihai Malaimare Jr. e dalla spendida colonna sonora di Jonny Greenwood.
The Master però, non si limita a essere un bel racconto per immagini. Anderson, scava con profondità nel mito e nei paradossi fondativi del sogno americano, concentrandosi sul rapporto tra l’ambiguo Maestro e l’ex soldato mosso soltanto da istinti primari – lo conosciamo mentre mima un rapporto sessuale con la sagoma di sabbia di una donna e mentre dà interpretazioni ossessivamente erotiche alle macchie di Rorschach. 
Gli insistiti tentativi da parte di Lancaster di domare la brutalità di Freddie contro il volere della moglie Mary Sue (la solita meravigliosa Amy Adams), costituiscono lo scheletro narrativo del film; che, in parallelo, è giocato sul contrasto tra due grandissime interpretazioni: quella metodica, gigantesca di Philip Seymour Hoffman e quella ancora più letteralmente impressionante di Joaquin Phoenix, che il regista lascia spesso a briglia sciolta. Le sequenze che li vedono recitare in coppia, a partire da quella (già celeberrima) del primo “processing”, sono momenti di cinema colossale che lasciano davvero senza fiato.
Maestro e discepolo, padrone e schiavo (ma chi è il padrone e chi lo schiavo?) i due non possono stare lontani. Questa è la storia, questo è The Master.
Anderson non moraleggia sulle sette, ancora meno gli interessa mettere sotto accusa presunti plagi e manipolazioni, a lui importa solo scandagliare il legame tra due uomini. 
Un rapporto raccontato oltre ogni lettura psicologica, crudamente e in piena luce, sempre. Come se l’interiorità dei due fuoriuscisse e si materializzasse.
Una storia di anime, trattata e raccontata con forza muscolare, che incredibilmente assurge a epica.
Per quanto mi riguarda, grido al capolavoro. Immenso. 

Voto: 9


Rivoluzione su due ruote

Qualche autorevole giornale ha scritto che La bicicletta verde, presentato con il titolo originale Wadjda (il nome della ragazzina protagonista) al Festival di Venezia, nella sezione Orizzonti, è il primo film di una regista araba: diciamo subito che non è vero. Di registe arabe se ne sono già viste, in Algeria, Egitto, ecc. Questo è il primo film di una regista dell’Arabia Saudita, e non è la stessa cosa.
Wadjda ha più o meno dodici anni, è una ragazzina sveglissima e assai determinata che vive con la mamma alla periferia di Riyadh. Ha un sogno: avere una bicicletta tutta per sé, però alle donne non è consentito, sarebbe uno sfregio alla tradizione. Ecco, come in tanti film del passato, a partire dal prototipo tuttora inarrivabile di De Sica-Zavattini, anche qui la narrazione ruota intorno a una bicicletta.
Nella scuola frequentata dalla ragazzina, viene indetta una gara di Corano, chi ne imparerà più capitoli a memoria e li saprà recitare come si deve, avrà un premio in denaro. Naturalmente Wadjda si iscrive con l’intenzione di mettere mano sul piccolo bottino e potersi comprare la bicicletta. Vince. Ma quando la perfida preside viene a sapere come spenderà il gruzzolo, glielo confisca destinandolo “a sostegno dei nostri fratelli palestinesi” (ironia geniale e pure coraggiosa per un film arabo). Il finale non è il caso di svelarlo, ovvio.
Ecco, l’idea del film è questa, semplice ma straordinariamente efficace: una ragazzina che non è come le altre ragazzine, che non accetta e non subisce, che vuole potere scegliere nonostante tutto intorno a lei glielo impedisca, e la bicicletta agognata diventa simbolo e metafora di una ribellione ed emancipazione femminile.
Una storia semplice, di quelle che vanno diritte al cuore dello spettatore, con personaggi positivi per cui viene naturale parteggiare. Aggiungete che Wadjda tratta, pur senza menarla troppo con espliciti messaggi politici e fastidiosi didascalismi, la faccenda della condizione femminile in Arabia Saudita, non proprio il paese arabo e musulmano più avanzato in fatto di diritti, improntato com’è a un rigido wahabismo, visione assai rigorosa dell’Islam e delle sue norme. Paese in cui notoriamente le donne non possono nemmeno guidare, e difatti una delle lotte in corso, di cui ci arriva qualche eco, è proprio quella delle signore al volante.
Ecco, tutto questo costituisce lo sfondo in cui la regista, Haifaa Al Mansour, inscrive il suo racconto.
Non si cerchino in questo film ardite sperimentazioni registiche, autorialità sfrenate e narcise. Qui c’è una piccola grande storia di quelle che sanno parlare al pubblico di ogni latitudine e longitudine, un film universale che piacerà dappertutto. Con quell’omaggio al neorealismo italiano che in fondo ci inorgoglisce sempre, però fatto a ciglio asciutto, senza miserabilismi e patetismi. Anche sentimentalismo e retorica vengono mantenuti al di sotto della soglia di allarme. 
Non amo i film militanti, a tesi, con il messaggio incorporato. Ne ho visti troppi sulla oppressione delle donne e il loro diritto alla ribellione, e spesso era cattivo cinema.
Ma a Wadjda non si può non voler bene.

voto: 7

Anatomia di una rinascita

Ali è un mezzo sbandato con figlio a carico e tendenza a fare a pugni con la vita. Stéphanie lavora con le orche in un acqua-park. Un giorno ha un incidente gravissimo e perde le gambe. Ali e Stéphanie sono due emarginati, anche se per motivi diversi. Tra loro, nascerà, una relazione, fatta di molto, molto sesso e apparentemente zero sentimenti. O forse, non è nemmeno una relazione. Jacques Audiard ci racconta una storia d’amore brutale, con il suo stile fisico, tattile, stando addosso ai suoi personaggi con la macchina da presa, non mollandoli mai. E senza nasconderci nulla della menomazione di Stéphanie. Gran film, che senza pretendere di replicare la densità narrativa di un capolavoro come Il profeta, ci racconta, l’incontro inconsapevole eppure necessario, tra due anime costrette a ridefinire i loro confini e le loro coordinate. 
Sarà ora di dire, dopo Un sapore di ruggine e ossa, che Audiard è, definitivamente, uno dei migliori autori europei della sua generazione, ormai un maestro. Il suo è un cinema materico, peculiare, inconfondibile, un cinema corporale, fisico, tattile, che rifugge da ogni astrazione e cerebralità e assillo psicologico, e si ancora e affonda, nell’evidenza delle cose, delle persone, dei fatti, di ciò che puoi vedere, toccare, mangiare, annusare, mordere. Anche ferire.
Il film ci mostra Ali e Stéphanie e quello che li unisce, ce lo mostra ma non ce lo definisce quel legame, non lo immette in nessuna delle categorie che siamo abituati a usare. Questa loro storia non è propriamente amore, forse è sesso e basta, forse è solidarietà tra due che sono sfigati, forse è un patto di mutuo soccorso, forse è solo la collisione casuale di due sconosciuti, forse è l’intersezione di un attimo di due traiettorie destinate a separasi. Audiard trascina i suoi personaggi in una narrazione libera da ogni schematismo, capace di affiancare al dramma più straziante, un’inattesa ironia e una sensualità travolgente, perdendo (ma è perdonabile) qualche colpo quando si immerge quasi con spirito “sociale” nello sgradevole sottobosco del mondo del lavoro, riprendendosi poi del tutto quando colpisce i suoi protagonisti con lampi di epicità, coraggio, grandezza – segni di una straordinarietà già in nuce, ma ancora tutta da conquistare, sfidando la paura di sé e dell’altro. Il loro “racconto di formazione” è una terribile marcia a ostacoli che il regista organizza con perizia e un pizzico di sadismo: i personaggi sono messi costantemente e spietatamente alla prova, fino alle estreme conseguenze – ma non è tanto la meta a interessare Audiard, quanto il tragitto: alla fine del giochi, il proprio destino è scritto nelle ferite, nelle lacerazioni e nelle ossa rotte, memorie indelebili, sempre presenti, della strada percorsa per trovare (o ritrovare) la luce.

L’uso degli effetti speciali, abbinato al realismo della messa in scena e alla predominanza della camera a mano, crea un contrasto che amplifica se possibile la magnifica prova di Marion Cotillard, struccata ed emaciata per gran parte del film eppure sempre incredibilmente magnetica; con il rischio di sminuire la performance del pur adeguato Matthias Schoenaerts che con i suoi muscoli e anche l’inespressività, lavora di corpo e scolpisce il suo Ali in modo sorprendentemente naturale. Inaudito e perfetto, persino commovente, l’uso espressivo nella colonna sonora, di “Firework” di Katy Perry, in una delle scene più intense e significative del film.

Voto: 7.5

Voto redazione

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Presidente: 7  |  Ang: 6.5

Roba mia, vieni con me!


“Roba mia, vieni con me!” Così, a un certo punto dice Mazzarò, nella celebre novella La roba di Verga. E così sembra dire Nicola Ciraulo (Toni Servillo) nel film italiano in concorso a Venezia, vincitore dell’Osella tecnica (per la fotografia) e “mezzo” Premio Mastroianni.
La base di partenza è l’omonimo romanzo di Roberto Alajmo, un giallo di cui Ciprì mantiene il substrato suspansivo, filtrandolo attraverso un’estetica visiva e narrativa atta ad estremizzare il lato grottesco della vicenda. C’è Palermo (delocalizzata in Puglia per facilitazioni della relativa Film Commission) degli anni ’70-‘80, nella quale si consuma il dramma di una famiglia e il sacrificio del suo giovane agnello.

La secondogenita di Nicola Ciraulo, viene accidentalmente uccisa in un agguato di mafia. Il dolore e la follia scaturiti per la tragedia, trovano un’improvvisa attenuazione non nella ricerca di una spiegazione o di una giustizia ristoratrice, ma in un compenso economico destinato dallo Stato alle vittime di Mafia. Divenuti ricchi improvvisamente e senza la giusta capacità di giudizio, i membri della famiglia, capeggiati da uno splendido Servillo sudato, con la pancetta e gli occhiali sporchi, opteranno per l’acquisto di una Mercedes – la roba verghiana, appunto.

Daniele Ciprì, sciolto il prolifico e geniale sodalizio artistico con Franco Maresco – ma non la loro emblematica “visione poetica” – dirige un film grottesco e iperrealista su una famiglia siciliana alla quale la vita toglie e dà tutto, prima di riprenderselo di nuovo e beffardamente.
Storia di cupi estremismi, umori, amori e disamori, E’ stato il figlio è fors’anche una rischiosa galleria di cliché sulla Sicilia e sul suo degrado fisico, ambientale, morale, che se non l’avesse messa in piedi un palermitano doc, le anime belle del politicamente correttissimo si sarebbero già scatenate. E’ una Sicilia torva, quella in cui si muovono i “nuovi mostri” di Ciprì, criminogena quasi per vocazione naturale, un postaccio brutto, sporco e cattivo (l’allusione al film di Scola non è assolutamente casuale) dove ogni pietà è morta, la sporcizia si accumula ovunque, i picciotti più o meno immafiositi imperversano, la burocrazia è sadica, e dove conta solo la pura, animale possibilità di sopravvivere in un universo di abbaglianti consumi. Lo sguardo di Ciprì è implacabile. In E’ stato il figlio ogni riscatto è negato. Davanti a noi scorrono corpi e volti deformi, spiagge e cortili-discarica. Questo film non contempla la bellezza, ma solo il suo opposto, la bruttezza al massimo dell’orrore possibile.
Alla narrazione a posteriori (tutto il film è raccontato dal protagonista anni dopo lo svolgimento della vicenda) assistono molte persone, distratte e in attesa del loro turno in posta. Solo un uomo ascolta la conclusione della storia e, più grottescamente che mai, scopriamo poi, che è sordo. Incapace di sentire quanto gli viene raccontato.
E allora, la morale della “favola” è che in fondo, sordi lo siamo un po’ tutti, chi in un modo chi in un altro, troppo impegnati a fare il bagno al mare, su spiagge circondate da ciminiere e cemento magari proprio come quelle di Taranto, magari proprio a ridosso della sede dell’ILVA, protagonista della cronaca di quest’estate, e di chissà quanti altri lutti, che lo Stato risarcirà con chissà quante altre Mercedes.

Voto: 7.5


Voto redazione:

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Ang: 7

L’incendio di una fattoria è una tragedia, la rovina della Patria solo una frase

Quando è uscito Romanzo di una strage, nonostante avessi dei timori sull’operazione in se e sulla riuscita stessa del film, sono corsa a vederlo pur sapendo di infliggere un altro duro colpo alla mia coscienza patriottica (e ancora non avevo vista Diaz…!)
«Un biglietto per Romanzo di una strage» ho detto quindi con ferma convinzione alla cassiera in biglietteria.  
«Sala 6» mi hanno risposto all’ingresso.
Sei, come il numero degli spettatori presenti quella sera (me compresa).
Il rischio che questo film finisse con l’interessare più che il pubblico, i vari addetti ai lavori (giornalisti in primis) era in fondo, prevedibile. Il tema delicato che affronta, la testimonianza di giorni insanguinati dall’odio e da una guerra civile non dichiarata ufficialmente, ma drammaticamente concreta in termini di uomini assassinati in nome di un’ideologia, ha scatenato, ancor prima di uscire nelle sale, forti polemiche.
Ad esempio, quella mossa dal figlio di Luigi Calabresi, lo scrittore e giornalista Mario Calabresi, per la mancata testimonianza della feroce campagna denigratoria di Lotta Continua, nei confronti di suo padre. O Adriano Sofri, che attacca l’ipotesi fatta propria dal film, delle due valigette con esplosivo deposte alla Banca dell’Agricoltura. Ipotesi, mutuata dal libro Il segreto di Piazza Fontana di Paolo Cucchiarelli. Il quale Cucchiarelli, a me sconosciuto fino a pochi giorni fa, sul Corriere della sera risponde a Sofri ribadendo la sua tesi: doppia bomba e doppia valigia.
Insomma, come c’era da aspettarsi, Romanzo di una strage è diventato un succulento caso mediatico, anche perché cognomi coinvolti in quella vicenda e in vicende correlate e successive (Calabresi, Sofri) nel frattempo sono diventati firme di peso nel sistema comunicativo-giornalistico del nostro Paese, e se vogliamo questo è uno degli esiti più strani e meno attesi di quel lontano evento.
Mi rendo conto di avere parlato finora quasi niente del film, e invece molto di quello che gli gira intorno, ma era, ed è inevitabile, temo. 
Come si fa a discettare della regia di Marco Tullio Giordana, e sui valori o disvalori squisitamente cinefilmici, quando è la tematica che viene trattata, ad attrarci completamente? Questo è un caso esemplare di film il cui contenuto divora la forma e la azzera nella nostra percezione di spettatori.
Qui davvero ciò che è raccontato è tutto e il “come” lo si racconta (apparentemente) niente. Però, dico che, pur nei limiti invalicabili del “cinema di impegno” nostrano, Romanzo di una strage riesce a essere avvincente, soprattutto nella prima parte. 
Giordana adotta uno stile vagamente espressionista – che peraltro gli appartiene da sempre – e questo gli consente di non appiattirsi nella (in)espressività e povertà da fiction-del-lunedì-sera-Rai (rischio che è sempre in agguato in questi casi: Rai Cinema per di più, è tra i produttori, dunque la destinazione televisiva è parte del progetto).
Le cose migliori di Romanzo di una strage, sono le parti più nebbiose, milanesi e lugubri: l’attentato ad esempio e le cariche della polizia a inizio film, o il personaggio di Aldo Moro, che diventa qui una sorta di Cassandra che vede-sente l’apocalisse avvicinarsi ed è come schiantato dalla propria impossibilità ad agire. Che importa se il vero Moro non era così, conta che drammaturgicamente il personaggio abbia una sua forza, e costituisca l’unica vera invenzione del film (e Fabrizio Gifuni, gianmaria-volontèggiando, mette a segno un’interpretazione di tutto rispetto).
Il film si lascia guardare, ma richiede uno sforzo di concentrazione notevole. Ogni battuta e ogni personaggio rimandano a passaggi chiave della nota vicenda, e si rischia spesso di farsi travolgere nel dedalo dei fatti e soprattutto delle congetture.
Altro da dire? Gli attori, per esempio. Schierato quasi tutto l’esercito dell’engagement di Cinecittà. Favino (Pinelli) arriva al suo quarto film in poco più di due mesi (sempre bravo, però un po’ di vacanza gli ci vorrebbe). Valerio Mastandrea (Calabresi) è il più bravo di tutti, e con la sua aria mite e la sua interpretazione trattenuta e depotenziata – stile Mastandrea per l’appunto – contribuisce in modo decisivo alla revisione che gli autori fanno del personaggio del commissario. Molto credibile Michela Cescon nei panni di Licia Pinelli e una menzione speciale la meritano il Ventura di Denis Fasolo e il Freda di Giorgio Marchesi, che sembrano usciti da un altro film, più aggressivo e squilibrato, più vicino al genere ma non per questo meno politico. Pressoché inutili invece, il cameo di Luigi Lo Cascio nei panni del giudice Paolillo o quello di Luca Zingaretti al quale è concessa mezza battuta e tre nano secondi di pellicola.
Ah sì, c’è anche Laura Chiatti nel ruolo di Gemma Calabresi, sempre incinta: nell’arco del film mette al mondo ben tre figli.

voto: 6.5

Voto redazione:

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Ang: 6.5   |   Presidente: 6

"Juno" collettivo d’oltralpe

Prendendo spunto da un fatto realmente accaduto nello stato del Massachusetts, le sorelle Delphine Coulin e Muriel Coulin ci narrano la storia di queste 17 ragazze (accolto con entusiasmo alla Semaine de la Critique del Festival di Cannes 2011), ambientandola in una paese sulla costa oceanica francese. Il fatto è a dir poco anomalo, in un liceo, queste giovani adolescenti, quasi simultaneamente, decidono di farsi mettere incinta. Ispirate e trascinate dalla bella Camille (Louise Grinberg, La classe), l’unica che decide di portare avanti una gravidanza non voluta, prima le amiche, poi altre compagne di scuola decidono di seguirla in questa avventura, scegliendo ad una festa il potenziale padre, ignaro di tutto. Bellissime, potenti, padrone del proprio corpo, compiono un atto di ribellione contro le proprie famiglie, contro l’educazione scolastica, sognando di vivere legate per sempre, in una comunità post femminista. Un gesto per abbattere la noia, la quotidianità del piccolo paese provinciale, per rafforzare un’amicizia che sembra inscindibile, perché si sa, a sedici anni, la famiglia rema sempre contro, rappresenta l’ostacolo, mentre le amiche sono sorelle, sono compagne di vita con le quali fare scelte coraggiose e sognare il futuro. Ma la realtà nasconde l’amarezza e il sogno soffoca miseramente sotto il problema pratico della vita, l’incoscienza dell’età  porta alla sfacciata sicurezza di sé e al potere assoluto, ma di un mondo che a sedici anni non è fatto di concretezze, ma di legami e sogni, perciò, strattonate dagli adulti, le ragazze sono costrette a svegliarsi e ad adeguarsi ad una vita “normale” e ormai segnata da una maternità prematura. Una riflessione sul mondo adolescente femminile, sull’impotenza dell’istituzione e della famiglia, impegnata nel proprio ruolo, ma incapace di gestire e comprendere un gesto così potente: la presa di coscienza da parte di una giovane donna di essere totalmente padrona del proprio corpo, unita alla forza del gruppo e all’estremo bisogno di queste ragazze dell’indipendenza o di prendere il più possibile le distanze da genitori assenti, che non le comprendono. Una regia semplice, pulita e aggraziata, un film piccolo, fatto con basso budget e un cast giovanissimo e sconosciuto, sullo sfondo azzeccato di un paesaggio noioso, di spiagge ventose e vuote, la storia trascina, ed è affrontata con estrema delicatezza e poesia, trasporta lo spettatore, soprattutto la spettatrice, in quella cameretta, con i poster e i mille colori, che è più di una stanza, perché è un mondo, pieno d’illusioni, dove è bello rinchiudersi, come in una fortezza. Quello che rimane è una ventata di libertà e un velo di tristezza.

voto: 6.5

Tutta l’estetica della quotidianità

L’impressione è che i tempi stiano cambiando, ma in verità non è ancora così semplice dalle nostre parti, vedere i migliori film asiatici, soprattutto al cinema. Per fortuna esiste chi di questo ne ha fatto una missione, come quelli della Tucker Film (gli stessi che organizzano il Far East Film Festival di Udine) che da qualche tempo – prima con il giapponese Departures e poi con il sud-coreano Poetry – stanno cercando di distribuire in sala e in dvd, titoli davvero interessanti e, in alcuni casi, indispensabili. Rientra indubbiamente in quest’ultima categoria A Simple Life, che la regista 65enne Ann Hui ha presentato in concorso lo scorso anno a Venezia dove, tra le altre cose, la straordinaria protagonista Deannie Yip ha vinto la prestigiosa Coppa Volpi per la migliore interpretazione femminile.
A Simple Life è un film buono, onesto, ma non melenso e ricattatorio. Un film semplice come il suo titolo, e che commuove gli spettatori. Da Hong Kong, arriva con questa piccola-grande opera, una vera lezione di umiltà e di umanità.
La governante Ah Tao dopo sessant’anni di nobilissima carriera, in seguito ad un malore, decide di ritirarsi dal lavoro e ricoverarsi in una casa di riposo. Le rimane devotamente vicino l’ultimo rampollo della famiglia per cui ha lavorato una vita intera, Lee (Andy Lau, bravissimo) quarantenne produttore cinematografico, che si prenderà cura di lei fino alla fine.
Gustave Flaubert nel racconto Un cuore semplice ci aveva regalato il ritratto della domestica Felicita, donna dal cuore puro e di quella naturale bontà che solo gli umili e gli ultimi, riescono a possedere. Non so se i due sceneggiatori di questo film e la regista Ann Hui si siano rifatti a quel racconto. Il titolo, Una vita semplice, lascia pensare che sì, ci abbiano pensato eccome. La vicenda poi è così simile da sembrare ricalcata su Flaubert, anche se qui si tratta dall’esperienza di famiglia dello sceneggiatore Roger Lee, anche se ci troviamo non nella Francia dell’Ottocento ma nella Hong Kong del XXI secolo. Una Hong Kong cinesizzata (nel senso di Cina popolare) ma non troppo, ancora orgogliosa della propria differenza e identità di ex città-stato. E difatti il protagonista quando deve andare a Pechino afferma: “Vado nella Cina continentale”, come se si trattasse di un altro mondo.
A Simple Life ricorda un certo Olmi, nel suo pudore, nel suo mettere in scena vite che ancora credono in qualcosa, gente che non sa fare il male ma il bene, valori che ancora resistono alla marea montante e universale del nichilismo.
Il film non ha un attimo di cedimento, gli sceneggiatori sono abilissimi nel dosare il registro drammatico, il patetico, la commedia. Ci si rende conto di quanto i temi toccati, che sono poi quelli dell’invecchiamento e della malattia, siano universali, e chiunque sia entrato per un qualche motivo in una casa di ricovero per anziani, ritroverà con precisione in A Simple Life gli stessi comportamenti, disagi, piccole sopraffazioni, slanci di solidarietà.
In questo Hong Kong è vicina, incredibilmente vicina.
Alla fine, ci si commuove fino alle lacrime e quando Ah Tao se ne va, abbiamo l’impressione che a lasciarci sia qualcuno che avremmo voluto conoscere davvero.

voto: 7.5


Voto redazione:
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