Carpe diem in salsa rosa

Film delizioso questo One Day della danese Lone Scherfing (An education). Sentimental movie sobrio e brioso, lontano da sentimentalismi facili, vicino alla realtà di tutti i giorni.
Dexter e Emma si incontrano a fine anni 80, appena laureandi e finiscono quasi a letto insieme la prima sera. Da quella notte nasce una duratura amicizia che si protrae nel tempo, tra alti e bassi, per tutto l’arco delle loro esistenze. Emma è una squisita Anna Hataway, inizialmente ventenne un po’ imbranata, intelligente e coscienziosa, la classica brava ragazza. Dex, Jim Sturgess, un donnaiolo simpatico e un po’ sbruffone che si fa risucchiare dal mondo dello star system, ma mantiene una scintilla di buon senso che lo salverà in più di un occasione.
La vicenda viene sapientemente spalmata di anno in anno, si parte dal 2006 e si torna immediatamente indietro all’88, per poi progredire di nuovo. Questo permette allo spettatore di assimilare al meglio le dinamiche di cambiamento umane e di rapporto che avvengono tra i due, sapientemente diluite pian piano senza rallentamenti o passaggi inutili; cosa non da poco se si pensa che la storia di per sè è trita e ritrita e il ruolo dello svolgersi narrante è realmente in questo caso quel qualcosa in più. La vicenda gioca il tiro dello humor spigliato (di circostanza) quando non si sofferma sui lati difficili e la recitazione dei protagonisti, sottoposti al non facile compito di crescere, così come delle squisite seconde parti, è di importanza fondamentale per non far perder quota al climax fondante che sale sale fino quando a un passo dal finale qualcosa accade (forse in maniera anche un po’ scontata) ma proietta la storia verso un super ending che con schemi di montaggio temporale ottimamente studiati non possono che lasciare lo spettatore appagato dall’eccezionalità di una storia d’amore come tante altre, bella e unica nella sua specificità e grandezza. Squisitamente pop, proiettato in alto (dalle parti di Two Lovers per intenderci) rimanendo comunque accessibilissimo, One Day rallegrerà come forse appesantirà tanti cuori, orfani di quel tocco leggero ma curato nei minimi dettagli che molte storie d’amore moderne non riescono a trasmettere, legate principalmente a standard di botteghino che difficilmente permettono di uscire dagli schemi del sentimentalismo di più facile lettura.
Ottime come sempre le musiche della Portman (apprezzata recentemente in Non lasciarmi) che senza scendere mai in catarsi scontate accompagnano con vibrante classicismo lo svolgersi dei fatti.
One Day parte dall’amore per sfondare il tema della vita, della crescita nella maturità, di come comportarsi di fronte ai cambiamenti che accadono al nostro interno a cui spesso involontariamente siamo soggetti per cause non nostre e lo fa alla perfezione nella sua non scontata semplicità, dalla regia pulita e soppesata, allo script raccolto e sornione di David Nicholls autore del best seller da cui è tratto il film, alla recitazione intensa e mai sopra le righe dei giovani attori.
Consigliato a chi cerca profondità tra le facili pieghe della vita di tutti i giorni. Per sorridere e piangere un po’, con il pensiero che in fondo la cosa che conta è che se è stato bello per quanto breve o tardivo l’importante è averlo vissuto. Un film che a rivederlo tra qualche anno forse potrà piacere anche di più.


voto: 7

Attimo fermati, sei bello.






Vincitore del Leone d’Oro all’ultima Mostra del cinema di Venezia il Faust di Sokurov, liberamente tratto dall’omonima e celebre opera di Johann Wolfgang von Goethe, non è un film per tutti. Ma, s’intenda bene, affermando ciò, non ci si riferisce alle più o meno confacenti capacità intellettuali dello spettatore rispetto al film.

Il Faust di Sokurov non è un film per tutti, perché è un film che chiede qualcosa in cambio. Pretende la stipula e l’accettazione di una sorta di patto, oserei dire diabolico, tra il film stesso e lo spettatore. Il primo propone una visione del mondo, un sistema di valori e di leggi, che il secondo dovrà accettare per riuscire a far parte dell’esperienza filmica. Il patto può esaurirsi nel tempo della visione o durare una vita intera.

Questo è un film-summa, è la sintesi di un lavoro trentennale ma è anche un trattato poetico, filosofico, teologico, estetico. Un’opera oltre il cinema, che si propone come specchio della decadenza della società contemporanea e, allo stesso tempo, compendio degli stilemi artistici del regista.
Sokurov apre il quarto e ultimo episodio della Tetralogia del potere, con una spettacolare e inquietante inquadratura a volo d’uccello che inserisce da subito la ben nota vicenda – del Dottor Faust e del suo viaggio verso la perdizione della propria anima – all’interno di una cornice aliena, onirica. Un labirinto alla Escher, irto di ostacoli e di repentine deviazioni, in cui è facile perdersi. Si entra nelle tenebre e non se ne esce più. Ma non tutti sono condannati al pozzo nero. Trovata la chiave, si svela la luce. Si sale, si sale, si sale. E si spalanca un cielo che ti fa piangere per quanto è bello.
Il Faust è, prima di ogni altra cosa, il racconto di un’ascesi (nel senso di aspirazione verticale al Sublime) che parte dai detriti corrotti di un immaginario collettivo, costellato di sogni infranti e desideri irraggiunti. Una continua tensione dell’uomo verso Dio, una continua sfida dell’uomo che, alla fine, si fa Dio.
L’inconscio prima ancora che la razionalità, è forse la modalità più immediata per affrontare il film, e i suoi personaggi che promettono di essere padroni del loro destino, mentre invece, soccombono l’uno all’altro, sballottati come in una teca di vetro.
Il Dottor Faust è un uomo di mezza età, famelico Don Chisciotte che non sfida mulini ma Colonne d’Ercole; è più che mai predisposto alle tentazioni, non le rifugge, sembra quasi averne bisogno per vivere e dare innesco al proprio Streben, quell’impulso alla vita e alla conoscenza che altrimenti non gli sarebbe concesso.
Mefistofele è un arguto clown, un angelo caduto che lotta contro il Bene conoscendone prima di tutto la potenza persuasiva. E così non ha bisogno di apparire come Male in ogni sua raffigurazione, sa bene che il tempo è dalla sua parte.

Non c’è dubbio che per Sokurov l’impianto visivo sia di principale importanza: la sua riflessione intorno al desiderio passa attraverso esacerbanti monologhi filosofici, insistite bizzarrie surrealiste e consuete provocazioni formali, ma già con la scelta del formato 4.3, è l’immagine pura – al tempo stesso meravigliosamente pittorica e arditamente sperimentale, antica e moderna come la storia che racconta – a imporsi quale filtro attraverso cui osservare il mondo.

E allora festeggiamo.
Eureka, Eureka!
Esiste ancora la sperimentazione in campo cinematografico! Esiste e non è morta con Kubrick. Già questo assunto basterebbe a fare del film un Capolavoro.
Sokurov ambienta il suo Faust nella Germania mitteleuropea per antonomasia, e forgia un nuovo genere, anzi, fonda un “Genere”, più raro della Mandragora.
Cere anatomiche esposte in botteghe color cannella, Golem chi si ubriacano in catacombali osterie, manichini che si prostituiscono sotto i lampioni di viuzze sbilenche. Questa è la lente gotico-picaresca attraverso la quale prende forma il rifacimento cinematografico dell’opera totale di Goethe. 
Il suo Faust, è la Santabarbara di tutte le Avanguardie a venire.
Sokurov, dunque, ci prospetta un patto impegnativo, a tratti più sacrificale che mutuale. Ma è un contratto su cui sono felice di aver apposto la firma.
Film assoluto e potentissimo.
E l’ho detto, ebbene sì l’ho detto: Attimo fermati, sei bello. La mia anima è meravigliosamente perduta, per sempre.

Voto 9

Voto redazione:
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Presidente: 8     Ang: 7   Apeless: 8-          

Umorismo all’italiana, una storia vera


A Pisa probabilmente tutti conoscevano già questa storia, è la classica storia che si tramanda nel vecchio bar del paese, tra un caffè e una partita a carte, realmente accaduta nell’estate del 1970. Il regista e scrittore Roan Johnson (trentacinquenne, metà italiano e metà inglese) è cresciuto a Pisa e avrà sicuramente frequentato il vecchio bar, rimasto affascinato dal racconto, ha deciso di divulgarlo ad un pubblico più ampio. Così si fà regista, sceneggiatore e scenografo, affiancato da uno dei tre protagonisti, il Lulli, classe 1951, per narrarci questa storia bislacca che ha come antefatti il polverone della fine degli anni ’60, la dittatura dei Colonnelli Greci del 67, il maggio parigino, la strage di Piazza Fontana del 69, per citarne alcuni, in generale il clima di tensione e violenza nell’Italia e non solo, di quegli anni. Detto questo, i tre protagonisti vivono la gioventù nel 1970. Lulli è un liceale diciannovenne con la passione della chitarra e scarso fervore per la politica, il suo amico e compagno di chitarra e del collettivo, Fabio Gismondi, e il personaggio chiave della storia il Masi, uno di cui ti chiedi continuamente se ha ragione o se è un coglione (definizione dell’attore che lo interpreta, Claudio Santamaria), già allora celebrità locale, cantautore impegnato, lavora anche con Pasolini, autore della Ballata del Pinelli, è più grande di qualche anno degli altri due e proprio per la sua appassionata partecipazione alla musica e alla politica, gira il mondo con la chitarra cantando di partigiani e operai, suscita il dovuto fascino e, posto sul piedistallo del mito, coinvolge gli ingenui amici in un’avventura imbarazzante, un viaggio divertentissimo (per noi pubblico, s’intende), una fuga paranoica verso i confini dell’Italia, in seguito a voci di corridoio che si diffondevano nel movimento studentesco sulla possibilità di un colpo di stato militare, per cui loro, primi della lista che i potenziali colonnelli verrebbero a cercare, rischierebbero la vita. Decidono di fuggire verso l’Austria per chiedere asilo politico e scavalcando illegalmente i confini finiscono direttamente nelle prigioni austriache, innescando, come una bomba ad orologeria, un incidente diplomatico imbarazzante che coinvolgerà persino Aldo Moro. Una vicenda che si intreccia a incomprensioni ed equivoci, tipici di una commedia all’italiana, ma realmente accaduti, per citarne uno: durante la fuga, incontrano truppe militari dirette a Roma, convinti che siano in procinto di preparare il golpe, in realtà si dirigono verso la capitale per la classica parata del 2 Giugno. Johnson documenta anche la tensione e gli stati d’animo, dipinge il quadro della società e della famiglia italiana del 1970 con umorismo, accentuando il contrasto tra i voli pindarici di una generazione sognatrice e la realtà semplice e concreta della tipica famiglia di provincia italiana, esemplare è la frase del padre di Lulli che dice al figlio “ma che ne sai delle cose importanti che non sai fare neanche quelle normali”. C’è sicuramente un briciolo di nostalgia dietro a questa ironia, ed è spontaneo un confronto tra il fervore politico di allora (anche se paranoico) e la  partecipazione di oggi, e tra lo spirito rivoluzionario (anche se da strapazzo) e l’indifferenza moderna. Visto in questo momento storico politico, però, non ci sembra così cambiato il pensiero di esterofilismo, per cui ci sembra che ci sia un governo sempre più democratico fuori dai nostri confini “andiamo in Austria che è un paese più democratico” “democratico? Ma se c’è nato Hitler in Austria”. Non confeziona nulla di nuovo a livello tecnico e narrativo, ma la storia è ottima, anche con scarsi mezzi, è ben raccontata per merito anche dei bravissimi attori. Cela un sapore romantico e nostalgico, la sensazione è di vedere una storia di un passato colorato, che ci fa sentire di vivere un oggi in bianco e nero, e il messaggio è chiaro: abbiamo perso quell’ ingenuità. Film da vedere, anche perchè si ride, si ride tanto. 

voto: 7

Una kryptonite d’aria fresca

Al Festival del Film di Roma è stato il film italiano che più ha conciliato le reazioni positive di pubblico e critica: La kryptonite nella borsa segna l’esordio dietro la macchina da presa di Ivan Cotroneo, scrittore (anche del romanzo da cui è tratto il film) e già apprezzato sceneggiatore sia televisivo che cinematografico.
“Tutte le famiglie felici si somigliano fra loro. Quelle infelici lo sono ciascuna in un modo proprio” affermava Tolstoj nell’incipit di Anna Karenina, e i Sansone – famiglia affollata e casinista nella Napoli del ’73 – rientrano di diritto in questa definizione. Il dolore c’è, senza dubbio: provocato dalla scomparsa di Gennaro, un bizzarro cugino che si crede Superman e si veste come tale; oppure acquattato dentro Rosaria (Valeria Golino) e destinato a sfociare in depressione, quando la donna apprende che il marito Antonio (Luca Zingaretti) la tradisce. Esiste, però anche una misura di gioia: la apportano, ad esempio, Titina (Cristiana Capotondi) e Salvatore (Libero De Rienzo), i fratelli di Rosaria, che vivono un poco in ritardo la liberazione sessuale Sessantottina, coinvolgendovi il nipote Peppino (Luigi Catani). Ecco, è questo bimbo di nove anni, occhialuto e sensibile, immaginoso e gentile, la voce narrante e lo sguardo osservante di tutto quanto avviene nella riuscita pellicola d’esordio di Ivan Cotroneo.
Sprofondato negli anni Settanta, La Kriptonite nella borsa è un rarefatto e garbato ritratto che sceglie la strada del bozzettismo lieve per raccontare di una stagione che non c’è più, tramutata in mitopoiesi narrata attraverso gli occhi di un bambino. Un film in gran misura delizioso, in cui si tingono di lisergico certi interni popolari che inteneriscono e che ha l’ardire di affidare lo scioglimento ad un volo non solo metaforico.
Bisogna ammetterlo: da quando ha avuto inizio l’Era del Tubo Catodico, il cinema italiano, si è rifugiato in un angusto pertugio, a metà fra il lettino dell’analista ed il tinello di casa. Qualche volta però, ha fatto capolino e quando ciò è accaduto, non ce n’è stato per nessuno. Ecco perché, qui, si amano – di un amore sincero e disinteressato – i Sorrentino, i Capuano, i Crialese, i Benvenuti (Paolo) e tutti coloro che scientemente scelgono la strada dell’eccentricità per sopravvivere ai pubblicitari e a Marzullo. Ecco, perché, ora, son qui a dirvi: andate a vedere La Kriptonite nella borsa, un piccolo film a cui non si può non voler bene.
Stordita dal Nulla delle altre proposte italiane questo film ha avuto per me un effetto “Via per Damasco”. Non che sia diventata cieca come Paolo di Tarso, ma dopo la visione di questo gioiellino tutto sembrava sorridermi. La Kriptonite nella borsa è davvero una ventata d’aria fresca che viene a lenire per un poco l’asettica puzza da Museo delle Cere che affligge il nostro claudicante panorama celluloideo.
Andate a vedere questo film, e ditelo agli amici: farete del bene a voi stessi, e al cinema italiano, l’unica speranza che ci resta.
voto 6,5

Voto redazione
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Apeless: 6+

La danza di Pina è una passione che appassiona

Tutto ebbe inizio un quarto di secolo fa, per la precisione nel 1985 a Venezia, quando il regista tedesco, Wim Wenders, assistette allo spettacolo Cafè Muller coreografato e ballato dall’artista Pina Bausch, tedesca anche lei, “era lontanissimo da ciò che nella mia testa era la danza”, parole di Wenders. Nacque subito un legame di amicizia e, in seguito, l’intento comune di creare un progetto che riguardasse il lavoro e l’arte di Pina attraverso gli occhi del regista. Ci sono voluti almeno 26 anni, attendendo una tecnica adeguata che rendesse giustizia alla resa cinematografica del teatro danza, il 3D. Nell’estate del 2009 Pina Bausch muore di cancro, aveva 68 anni. Wenders abbandona l’idea di portare avanti il lavoro da solo per almeno un anno, poi convinto dalla compagnia di Pina trasforma un film documentario in un’evocazione e un commovente saluto alla cara amica e grandissima artista. Apparentemente non c’è traccia di biografia personale e professionale, il tema centrale è la rappresentazione dell’eredità umana e artistica di questa grande ballerina, ma osservando attentamente gli spezzoni filmati da Wenders di 4 dei suoi spettacoli (Cafè Muller, Le Sacre Du Printemps, Vollmond e Kontakthof), entrando nella coreografia, nei movimenti si arriva all’animo e al cuore di questa donna. Suggestivi gli assoli dei ballerini con lo sfondo della città natale dell’artista, nonché sede del Tanztheater, Wuppertal, la città è trattata come un elemento formale – scenografico indipendente da un contesto reale, il risultato è un poetico contrasto tra la scenografia ruvida e fredda metropolitana e i movimenti, l’ondeggiare dei costumi e dei corpi. Gli altri ambienti scelti dal regista, per accentuare il tema del movimento come assoluto protagonista sono, non a caso, quelli dell’architetto minimalista tedesco Mies Van Der Rohe (la cui massima per intenderci era “Less is more”). L’unico elemento scenografico di forza che partecipa ai lavori di Pina è la natura, l’acqua, la terra, la roccia, sono ingredienti che fanno del movimento un racconto di sensazioni, creando un’unione istintuale tra danza, uomo e natura. 
L’idea di far parlare di Pina ai ballerini, attraverso la danza, era stata elaborata già quando Pina era in vita, ma il risultato è diverso, è un saluto, una rielaborazione di sentimenti e forze, Wenders riesce a trasmettere ottimamente al pubblico, anche profano di danza, la passione della Bausch, la sua arte così innovativa, ma anche i suoi incubi e la sua forte personalità artistica. Insomma un buon risultato. Raccomandata la visione in 3D!

Voto: 7

Voto redazione
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Apeless: 6   |   Chiara: 7.5

Ruvido apologo a stelle e strisce

Film corposo e vibrante, Warrior del newyorkese O’Connor, sbarca al botteghino con intenti oscaristici. Storia di speranza che attraversa il tema della riconciliazione coinvolge tre figure maschili di spicco, ben delineate e interpretate brillantemente. Il taurino Tom Hardy (prossimo villandell’ultimo capitolo della trilogia di Nolan su Batman), il guerriero dal cuore d’oro Joel Edgerton (gia visto in Animal Kingdom) e l’immortale Nick Nolte padre ex alcolista dei due con tanti rimpianti e un’ultima possibilità di riconciliarsi con il passato e la famiglia. Hardy è Tommy, imperscrutabile e arrugginito gladiatore (si ispira nei suoi combattimenti ad un antico lottatore greco di cui tenta di uguagliarne il primato) che ritorna dal padre Paddy (Nolte) con l’obiettivo di farsi allenare per il torneo Sparta, una sorta di macelleria mainstream per lottatori che mischiano insieme più arti marziali. Brendan (Edgerton), insegnante di fisica sospeso, non riesce a mantenersi la casa e decide con la moglie Tess (non senza difficoltà) di tornare sul ring per accaparrarsi il primo premio di Sparta (5 milioni di dollari) e risolvere i suoi problemi finanziari.
Se lo prendiamo da un punto di vista puramente filologico, Warriornon introduce nessuna novità ad un filone cinematografico molto caro oltreoceano, pieno di speranza e valori forti come la fraternanza, la rivincita umana e sociale, e una sorta di patriottismo loser che accontenta ambo le parti, aggiornando il tutto al tempo della crisi dei mutui e dell'(ennesima) guerra farlocca (Iraq). La cosa che invece impressiona di questa possente resa dei conti è la fisicità con cui viene cavalcato questo ingombrante polpettone. Da subito intuiamo il tratto registico sporco, telecamera incollata sui volti dei protagonisti a sottolinearne le inclinazioni espressive. La macchina da presa si sofferma più volte a scrutarene gli sguardi, orizzonti vuoti rivolti al passato, altro grande tema, che trafigge un domani incerto per tutti.
Intrigante e convincente, onore al merito recitativo, il rapporto di odio/(quasi)amore che permea il dialogo interrotto anni prima tra i tre. Non ci sono trionfalismi netti, o meglio O’Connor li affievolisce come meglio può, riuscendoci in parte, macchiando sicuramente il meno possibile una storia che avrebbe potuto facilmente sconfinare nel patetico.
Il film è tutto un grande ring su cui si affrontano le questioni irrisolte di un trittico attoriale sorprendentemente (e pesantemente) partecipe, delineato in 2 distinte metà, in cui la prima, quella interpersonale soccombe per mancanza di coraggio ad una seconda più ritmica e dal grande impatto. Altro pregio del film è quello di non scollarsi mai di dosso (anche nei combattimenti) il risvolto psicologico da cui i tre partono e questo permette ai personaggi di acquisire un peso specifico che sposta costantemente lo sguardo sul solco emotivo apparentemente inguaribile tra le parti. Il secondo tempo è un unico interminabile (in senso positivo) match dove si esalta la regia antispettacolare e dalla parte del pubblico di O’Connor. Gli scontri sono avvincenti, il montaggio sonoro secco e calzante. Il ritmo ne gode, tanto che i combattimenti sul ring sono da ricordare tra i migliori degli ultimi tempi. Tralasciando i paragoni con Cinderella man e compagnia bella (mi ha ricordato di più la roboante orgia fisica di Ogni maledetta domenica), possiamo dire che Warrior assimila bene l’asciuttezza estetica di The wrestler, sfiora l’approfondimento di The Million Dollar Baby e garantisce un alto tasso di spettacolarità inedito e funzionante. Una struttura verticale che punta diretta al sodo tralasciando una scontatezza sceneggiativa di fondo che viene ben soppiantata dalla misura con cui i volumi di spettacolarità (interpersonale e fisica) vengono dosati.
Se riuscite per un momento a tralasciare la prima parte della riflessione, quella strettamente riconciliante, riuscirete a godere di un prodotto massiccio, ben costruito, ottimamente recitato e coinvolgente fino all’ultimo respiro.
Voto: 7-


Voto redazione
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Presidente: 6   |   Ang: 4.5

Le avventure da Teen Teen

TinTin è un giovanissimo reporter con spiccate doti investigative e una rara scaltrezza mentale. Bighellonando una mattina per un mercatino d’antiquariato acquista da un ambulante il modello navale di un vascello battente nome “Unicorno”.
Subito dopo l’acquisto diversi personaggi manifestano un’immediata attenzione sul modellino come se fosse un prezioso gioiello antico.
Il ragazzo per nulla impaurito rifiuta offerte generose e porta a casa la piccola nave che in poche ore però le verrà sottratta con la forza rendendo palese che non si tratta di semplice modellismo.
L’arguzia e la ricerca aiutano il giovane a scoprire subito che la nave è parte di una serie di tre manufatti contenenti un antico e prezioso segreto, la chiave per recuperare un tesoro di valore inestimabile nascosto chissà dove dal Pirata Haddock e bramato dall’infido Sakharine in un intreccio di discendenze rugginose e secolari da parte dell’una e dall’altra famiglia.
Attraverso un avventura al fulmicotone TinTin, il fido Snowy il suo Foxterrier, i due goffi poliziotti Thompson e Thompson e l’ultimo discendente degli Haddock (un capitano da mercantile sbronzone ormai in decadenza) riusciranno non solo a recuperare il tesoro perduto ed a sconfiggere il pomposo Sakharine, ma instaureranno un legame di amicizia e rispetto unico che porterà Haddock a smettere di bere e tornare un capitano rispettabile oltre che ricco.
Spielberg tenta un colpo di mano dopo le recenti delusioni riproponendo sul grande schermo (TinTin non si vedeva al cinema dagli anni ’60) un personaggio in circolazione da molto tempo, nato dalle pagine di Georges Prosper Rèmi, in arte Hergè scrittore Belga e poi reso popolarissimo da longeve serie televisive animate e appunto anche un po’ di cinema.
Il regista in collaborazione con Peter Jackson mixa tutti i suoi personaggi più celebri filtrandoli però attraverso i capelli rossi del giovane reporter, i riferimenti sono chiarissimi da Indiana Johnes a Hook, passando per Polar Express in cui però i personaggi non sono vittime dell’avventura, ma bensì la bramano con ardore quasi a volersi volutamente mettere nei guai e questo fa di TinTin sì un personaggio adorabile, ma senza passato, senza radici, e senza direzione.
La realizzazione è impeccabile, l’animazione fluida e curata nelle texture e nei particolari, in alcune fasi sorprendente “l’effetto realtà” ma non c’è da stupirsi dato che la realizzazione è stata affidata ai migliori sviluppatori 3D del mondo, negli studi migliori del mondo, con al timone un gigante del genere, Jackson appunto. Colonna sonora piacevole, ma nulla da evidenziare.
Un film piacevole per passare una domenica in allegria con i propri figli, poco appagante per un secondo spettacolo infrasettimanale dopo una giornata di lavoro.

Voto: 5


Voto redazione
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Presidente: 5   |   Apeless: 5

Quando la notte si dorme, il sonno della ragione genera mostri

Quando il raccoglimento indispensabile alla stesura delle seguenti righe ha avuto ragione di vaste tenebre – della notte più profonda si vuole dire – subito ho compreso che, per esporre ogni cosa in modo corretto, dovevo rinunciare a un ragionamento lungo e rigoroso di stile darwiniano – “un lungo ragionamento dal principio alla fine” – per intendersi. Occorreva, al contrario, il rischio calcolato d’una discesa nell’onirismo più decostruzionista e strong, il farsi di casa, daccapo, in un sogno/incubo vivido e intenso, condotto a occhi aperti. Perché, quando la notte si dorme, il sonno della ragione genera mostri. Così è capitato a Cristina Comencini, sia all’atto della stesura del romanzo omonimo, sia durante le riprese di questo film.
E allora, via con l’immersione nelle tenebre più oscure.
Lei (Claudia Pandolfi) è una “donnina” sull’orlo di una crisi di nervi. Lui (Filippo Timi) un uomo scontroso e impossessato da un fortissimo e totalizzante complesso edipico che avrebbe mandato in brodo di giuggiole Freud.
Lei, Marina, la “donnina” sull’orlo di una crisi di nervi di cui sopra, è la madre di un bimbo di due anni, età in cui – come ci si dilunga a spiegare anche nel film – i pargoli sono continuamente agitati e richiedono costanti attenzioni perché non ancora indipendenti nel movimento; per di più piangono sempre e dormono assai poco.
Bene, il bambino in questione possiede tutte le sublimi caratteristiche appena elencate. È decisamente vivace e per di più è affetto da qualcosa, ma non si capisce cosa – semplice asma forse? – beh, incredibile ma vero, non lo sapremo mai, perché la regista, nonché sceneggiatrice, nonché autrice del romanzo da cui è tratto il film, decide di sorvolare completamente sulla questione. Questo qualcosa, comunque, costringe madre e figlio a trasferirsi in montagna per un mese. La convivenza forzata proverà notevolmente la donna, già di per sé in crisi rispetto al proprio ruolo di madre.
Lui, Manfred (meglio tralasciare qualsiasi commento sul gigionissimo nome del personaggio), è il proprietario della casa in cui si trasferiscono la nostra medeica protagonista e figlioletto. Manfred, reduce da due abbandoni traumatici, da parte della madre prima e della moglie poi, si diletta a ringhiare contro tutto e tutti per le due ore circa di film.
In sintesi, quindi Marina/Medea e Manfred/Edipo si incontrano, probabilmente in Alto Adige(?), in un luogo comunque, che la regista immortala come se ci trovassimo proprio là, esattamente, sui monti con Annette.
Dopo la prima reciproca ritrosia che impone ai due neo-coinquilini un atteggiamento di circostanziale diffidenza, una notte accade qualcosa che li porterà a scoprire la radice di un legame potente che non riusciranno a controllare né tantomeno a vivere.
Proprio come la regista, che non riesce a controllare nulla del suo film a partire dalla sceneggiatura che sembra scritta su uno scontrino e infarcita di dialoghi degni di Don Matteo, passando per l’utilizzo prossemico e didascalico – fino allo svenimento – della macchina da presa; per non parlare delle interpretazioni dei due attori protagonisti, sempre (assurdo!) fuori registro.
Andare oltre nella disamina di questo congegno narrativo di straziante imperfezione, sarebbe un gioco al massacro. Mi fermo qui, in attesa di domani, quando ne avverto già l’urgenza rivedrò Tutti a casa di Luigi Comencini, padre della regista in questione e Maestro indiscusso del nostro cinema nazionale.
E per la meraviglia quella che suscitano solo le opere totali e perfette piangerò. Oh, se piangerò.

Voto: 5

La cattiveria della terra

Justine (Kirsten Dunst) e Michael (Alexander Skarsgård) arrivano con grande ritardo al sontuoso ricevimento organizzato per il loro matrimonio. Ad aspettarli sono soprattutto Claire (Charlotte Gainsburg), la sorella della sposa e suo marito John (Kiefer Sutherland), gli organizzatori dell’evento nonchè padroni di casa. Justine sembra felice ma nel corso della serata manifesta evidenti segni di disagio che la spingono ad allontanarsi più volte dal clima di festa e a cercare momenti di solitudine. Sempre più tormentata dalle sue visioni, finirà per rinchiudersi in se stessa e ad allontanare anche il neomarito. Dopo qualche mese, a causa delle enormi difficoltà dovute alla malattia, Justine torna a casa di Claire che decide di occuparsi di lei nonostante il parere contrario del marito. Nel frattempo un fenomeno astronomico senza precedenti sta sconvolgendo il mondo: è Melancholia, un gigantesco pianeta in movimento verso la terra…

Seguito dall’abituale strascico di polemiche, Lars Von Trier si ripresenta al grande pubblico mettendo in scena un malessere da respirare a pieni polmoni, un viaggio al termine della depressione dal quale è difficile uscire indenni. Il film strutturato in due parti si apre con una sequenza di immagini imponenti; monoliti eretti sulle note del Tristano e Isotta di Wagner che calano completamente lo spettatore nel clima rarefatto del film annunciando ciò che verrà mostrato con ben poca pietà. L’incapacità di vivere non abbandona Justine nemmeno il giorno del suo matrimonio. Ciò che la ricatta pretendendo la sua felicità è una cosa insostenibile e ripugnante; proprio come la limousine che si incaglia in una tortuosa strada di campagna, la ragazza è incapace di andare avanti e implode vinta da una sorta di depressione eroica che le impedisce di raggiungere uno stato di equilibrio. Ovviamente in tutto ciò emerge l’ego del regista perfettamente incarnato dalla splendida Kirsten Dunst giustamente premiata con la palma d’oro per la migliore interpretazione femminile all’ultimo festival di Cannes.

Se durante la prima parte del film il regista danese sguazza nelle acque a lui familiari delle dinamiche della mondanità borghese rievocando l’immaginario del Festen di Vintenberg, nella seconda cambia decisamente rotta e introducendo il pianeta Melancholia (dal latino umore nero, depressione) estende in maniera virale il male che fino a quel momento aveva riguardato la sola Justine e l’aveva posta come elemento incompatibile con la società. Il disagio si fa cosmico e spazza via tutto, dalle certezze incrollabili di John (un ottimo Kiefer Sutherland) brutalizzate da un elementare strumento costruito da un bambino, alle vane speranze della premurosa Claire. Nell’apocalisse ideale disegnata da Von Trier sarà proprio Justine, la zietta spezza-acciaio,  a comprendere la gravità della situazione e ad accompagnare la sorella e il piccolo nipote negli ultimi istanti prima della catastrofe, restituendo loro il contatto ultimo con la natura e Dio. Con Melancholia il regista danese non aggiunge molto a quanto già affermato in precedenza ma si concede al pubblico in maniera più docile, tralasciando gli eccessivi simbolismi de L’Anticristo e citando con garbo il maestro Tarkovskij. Nonostante la critica come sempre ingenerosa nei confronti di questo autore (la cui unica colpa è quella di voler mettersi in mostra più come personaggio che come regista) il film è sicuramente un valido antidoto al cinema da pollaio. A volte alla felicità finta è preferibile la disperazione vera.

Voto: 7.5


Voto redazione:
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Apeless: 8   |   Ang: 6   |   WaX: 8   |   Chiara: 8