Lacrime in quantità monsonica

Ne hanno fatta di strada gli “umiliati” e gli “offesi” di Victor Hugo. Dagli schermi cinematografici ai palcoscenici di Broadway, la storia di Jean Valjean e compagni, è stata esplorata in lungo e in largo, con un successo talmente grande da convincere Hollywood a metterne in cantiere una nuova versione, questa volta “remake” dell’omonimo musical.
Per dirigere questo film, così atteso e ingombrante, è stato chiamato Tom Hooper, regista de Il discorso del re – quello che ha fatto una gran rapina di Oscar due anni fa – e con il quale ho un conto aperto, anche solo per il semplice motivo che di tutte le cose che non mi vanno giù de Il discorso del re, quella che mi va giù meno, è proprio la regia. Ma passiamo oltre.
Chiaramente con un film del genere, la preselezione è già attiva: non vi piacciono i musical? State a casa. Giuro che se incontro ancora qualcuno che dice “ho visto Les Mis, ma che noia, cantano sempre” lo schianto di sberle. Certo che cantano sempre. È un musical! 
Se vi piace il genere, invece, è facile che andiate a vederlo per sentire le canzoni. La cosa più interessante, in tal senso, è che i pezzi sono stati registrati in presa diretta, una pratica utilizzata poche volte e che, per quanto mi riguarda, è in assoluto il valore aggiunto del film (e questo nonostante il fatto che come cantante, Russel Crowe è una campana a morto).
Ma il vero plus resta la storia infinita, smisurata, gigantesca di Victor Hugo, così mastodontica da resistere a tutto, a ogni trattamento registico e interpretativo (come resistono a tutto Shakespeare e Dickens), in grado ancora nel suo populismo e nel suo manicheismo primario – di qua il bene di là il male, di qua i buoni di là i cattivi – di sedurre e commuovere fino alle lacrime. Dio mio, come potrebbe essere altrimenti, c’è di tutto dentro: la colpa, la redenzione, l’amore, la rivolta dei buoni contro i malvagi, il potere corruttore dei soldi e la purezza e l’innocenza degli ultimi, dei misérables, fango dell’umanità e insieme sua più luminosa essenza.
Tom Hooper non è capace di una invenzione registica che sia una – questo è chiaro – è grossolano e approssimativo, però mette in scena questo Classico senza tempo, con la rude efficacia di un vecchio capocomico che sa come vellicare il pubblico e strappargli l’applauso. Les Misérables, al di là degli effettacci digitali, è puro spettacolo popolare: fatto apposta per essere detestato dai critici e amato dal pubblico.
Il film gode inoltre di una manciata di buone interpretazioni: Anne Hathaway qui è davvero bravissima e la notte del 24 febbraio, festeggerò se riuscirà a portarsi a casa (anche a discapito della mia adorata Amy Adams) l’Oscar come miglior attrice non protagonista; Hugh Jackman se la cava bene, ma nel suo caso l’Oscar sarebbe davvero eccessivo. Bravi poi Sacha Baron Cohen ed Helena Bonham Carter (entrambi già nel musical burtoniano Sweeney Todd), due ottimi guitti, protagonisti dei siparietti più divertenti. A colpire in positivo, sono anche i volti più nuovi: il bambino Daniel Huttlestone e l’emergente Samantha Barks nel ruolo di Eponine, che arriva direttamente dalle versione concertale del musical. E poi ecco, volevo dire solo altre due parole, e queste due parole sono: Aaron Tveit. Ecco.
Insomma, a questo Les Misérables bisogna lasciarsi andare, mettendo tra parentesi ogni pretesa bon ton o di raffinatezza narrativo-estetica, bisogna lasciarsene travolgere senza opporre resistenza. La commozione finale sarà inevitabile e vigorosa. Anche i meno sensibili, usciranno dalla sala con gli occhi lucidi e una manciata di kleenex in mano. 


voto: 7

Di quando Nolan mi ha messo un cappotto intorno alle spalle, per farmi sapere che il grande cinema è vivo.

Ho visto Il Cavaliere oscuro – Il ritorno, dopo più di un mese dalla sua uscita in sala. Il motivo di quest’attesa non è chiaro, neppure a me.
Dirò la verità, ho passato la prima mezzora del film cercando di affrontarlo con freddezza, di non farmi trascinare dal cieco entusiasmo, nonostante ne attendessi con ansia l’arrivo. Ma dopo un po’ di minuti passati a cercare invano il pelo nell’uovo, mi sono resa conto che non aveva davvero senso farlo e l’ho capito ascoltando il battito del cuore e guardando i muscoli delle gambe tendersi e agitarsi, quanto i neuroni nel cervello. 
In questo terzo e ultimo episodio della trilogia che Christopher Nolan ha dedicato ad uno dei supereroi più conosciuti del panorama fumettistico universale, ritroviamo il multimilionario Bruce Wayne alias Batman (Christian Bale) ridotto ad un misantropo che da anni non vede più nessuno se non il suo maggiordomo e che si è ritirato da ogni attività super-eroistica fino a quando Gotham City precipita nuovamente sotto il controllo e la brutale dittatura del villain di turno, Bane, un terrorista che indossa in volto, una maschera di cannule attraverso cui respira, mentre il resto è un corpo ipermuscolarizzato da bestione, grandiosamente minaccioso e violento. Non c’è un’inquadratura in questo film che non comunichi un senso di male, di malessere, di malattia, di disagio, di possibile fine del mondo. La lotta tra i due, a distanza ma anche nei corpo a corpo diretti, è l’asse narrativo sul quale, però, si innestano molti altri subplot e digressioni, e una folla di personaggi vecchi e nuovi, cui tocca, a turno, il centro della scena.
Certe volte, quando si è abituati a vedere film, parlarne, scriverne, in fondo capita che te li lasci scivolare addosso, come gocce di pioggia su una corazza robusta. Il cavaliere oscuro – Il ritorno(come il precedente episodio della trilogia diretta da Nolan) è uno di quei rari casi in cui, mentre lo stai guardando, ti rendi conto che qualcosa si sta spaccando, in quella corazza. Che sta penetrando, bruciando, elettrizzando. Non solo te, ma tutto ciò che gli sta intorno. Questo ultimo episodio – e tutta la trilogia in generale – è un uragano che tutto travolge, che fa piazza pulita, che spazza via anche il grigiume delle distinzioni, e con esse cambia radicalmente, almeno in potenza, la faccia stessa del comic book movieEd era un momento, questo, che aspettavamo, credo, da sempre. 
E se anche Il cavaliere oscuro – Il ritorno non supera il suo diretto antecedente, poco cambierebbe del suo inestimabile valore, del suo vigore, della sua ineccepibile poderosa violenza. Dove violenzasignifica prima di tutto, restituire allo spettatore il piacere di uno spettacolo totale. Dove nemmeno il tappeto sonoro di Hans Zimmer è una mera colonna sonora, ma una delle più grandi applicazioni di un’idea di sonoro nel cinema recente, costruita spesso su una ricerca del suono perturbante, che trasforma alcune sequenze in un’esperienza cinematografica vibrante, e fisica. Parlo di mangiarsi le unghie fino quasi alle falangi. Parlo di tremare.
Affrontare Il cavaliere oscuro – il Ritorno, mette in difficoltà, perché ti rendi conto immediatamente che le solite parole non bastano. Ad esempio, quelle di elogio della mostruosa capacità di Christopher Nolan di trovare un equilibrio tra le due anime del suo cinema, schizofrenico e fenomenale, come gli splendidi e corposi personaggi di questo film. O quelle per spiegare il fatto che Il cavaliere oscuro – Il ritorno, sembri un film complesso e adulto, nonostante le impennate e nonostante le maschere, un film che risente più della lezione di Michael Mann che di Tim Burton. O ancora, le parole adatte a definire i volteggi di quella macchina da presa tra i palazzi che fa di Gotham City la vera protagonista – una città che è impersonificata e resa carne, con il suo caos, il suo dolore e il suo disperato eroismo, e la sua fioca speranza. Gli occhi che ci guardano, e che ci parlano, fin dalla prima inquadratura, sono le sue mille e mille finestre. Pronte a scoppiare.
Quante sono, le cose che vorrei dire. E quante, ci sarebbero da dire. Ma tutte queste parole le rimandiamo un attimo, le mettiamo da parte, le consumeremo tra una birra e l’altra, scambiandoci colpi di gomito con un entusiasmo rivitalizzante. 
Io per ora, qui, mi fermo.

Voto: 8


Voto redazione
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Presidente: 7   |   Apeless: 8

Carpe diem in salsa rosa

Film delizioso questo One Day della danese Lone Scherfing (An education). Sentimental movie sobrio e brioso, lontano da sentimentalismi facili, vicino alla realtà di tutti i giorni.
Dexter e Emma si incontrano a fine anni 80, appena laureandi e finiscono quasi a letto insieme la prima sera. Da quella notte nasce una duratura amicizia che si protrae nel tempo, tra alti e bassi, per tutto l’arco delle loro esistenze. Emma è una squisita Anna Hataway, inizialmente ventenne un po’ imbranata, intelligente e coscienziosa, la classica brava ragazza. Dex, Jim Sturgess, un donnaiolo simpatico e un po’ sbruffone che si fa risucchiare dal mondo dello star system, ma mantiene una scintilla di buon senso che lo salverà in più di un occasione.
La vicenda viene sapientemente spalmata di anno in anno, si parte dal 2006 e si torna immediatamente indietro all’88, per poi progredire di nuovo. Questo permette allo spettatore di assimilare al meglio le dinamiche di cambiamento umane e di rapporto che avvengono tra i due, sapientemente diluite pian piano senza rallentamenti o passaggi inutili; cosa non da poco se si pensa che la storia di per sè è trita e ritrita e il ruolo dello svolgersi narrante è realmente in questo caso quel qualcosa in più. La vicenda gioca il tiro dello humor spigliato (di circostanza) quando non si sofferma sui lati difficili e la recitazione dei protagonisti, sottoposti al non facile compito di crescere, così come delle squisite seconde parti, è di importanza fondamentale per non far perder quota al climax fondante che sale sale fino quando a un passo dal finale qualcosa accade (forse in maniera anche un po’ scontata) ma proietta la storia verso un super ending che con schemi di montaggio temporale ottimamente studiati non possono che lasciare lo spettatore appagato dall’eccezionalità di una storia d’amore come tante altre, bella e unica nella sua specificità e grandezza. Squisitamente pop, proiettato in alto (dalle parti di Two Lovers per intenderci) rimanendo comunque accessibilissimo, One Day rallegrerà come forse appesantirà tanti cuori, orfani di quel tocco leggero ma curato nei minimi dettagli che molte storie d’amore moderne non riescono a trasmettere, legate principalmente a standard di botteghino che difficilmente permettono di uscire dagli schemi del sentimentalismo di più facile lettura.
Ottime come sempre le musiche della Portman (apprezzata recentemente in Non lasciarmi) che senza scendere mai in catarsi scontate accompagnano con vibrante classicismo lo svolgersi dei fatti.
One Day parte dall’amore per sfondare il tema della vita, della crescita nella maturità, di come comportarsi di fronte ai cambiamenti che accadono al nostro interno a cui spesso involontariamente siamo soggetti per cause non nostre e lo fa alla perfezione nella sua non scontata semplicità, dalla regia pulita e soppesata, allo script raccolto e sornione di David Nicholls autore del best seller da cui è tratto il film, alla recitazione intensa e mai sopra le righe dei giovani attori.
Consigliato a chi cerca profondità tra le facili pieghe della vita di tutti i giorni. Per sorridere e piangere un po’, con il pensiero che in fondo la cosa che conta è che se è stato bello per quanto breve o tardivo l’importante è averlo vissuto. Un film che a rivederlo tra qualche anno forse potrà piacere anche di più.


voto: 7