C’è vita nello spazio?

L’interazione gravitazionale (la gravità nel linguaggio comune) è una delle quattro interazioni fondamentali note in fisica. Nella fisica classica è interpretata come una forzadi attrazione conservativa agente fra corpi, la cui manifestazione più evidente nell’esperienza quotidiana è la forza peso (Wikipedia).
Il nuovo lavoro di Alfonso Cuaròn (I Figli degli Uomini) ci porta appena sopra l’atmosfera terrestre
nei pressi della Stazione Spaziale Internazionale. Qualcosa però va storto ed ecco che i nostri eroi si ritrovano in una situazione delicata , con poco ossigeno e col rischio di vagare eternamente nello spazio profondo. No, non pensate a quelle banalità del tipo “nello spazio nessuno può sentirti urlare” e via discorrendo. Qui siamo di fronte a qualcosa di ben più elegante, con attimi di vera tensione dovuta soprattutto ad una credibilissima rappresentazione della “vita” nello spazio e dei suoi pericoli. Ovviamente neanche stiamo parlando di un film filosofico: Gravity, chiariamolo, è puro e semplice intrattenimento. E nei rari e forzati momenti in cui prova a fare qualcosa di più fallisce, lasciandoci qualche dimenticabile storiella già sentita a cercare di caratterizzare i personaggi, che sono solo due, per cui da questo punto di vista un po’ di amaro lo lascia, visti anche gli attori in ballo. Che fanno il loro compitino, anche se li vediamo poco in faccia, con un loquace George Clooney e una Sandra Bullock che in questi casi casi si dice “in gran forma” e che non pensavamo di ritrovare in un ruolo da assoluta protagonista.
Per il resto, Cuaròn si conferma regista tecnicamente straordinario, strapiacevole sia da guardare sospesi nell’incredulità che da analizzare nei suoi lunghi piani sequenza dove non c’è una virgola fuori posto. Il rischio di soffocamento, gli oggetti in avvicinamento che sembrano lenti ma che poi quando arrivano colpiscono con forza tagliente e tutto il resto non solo si vedono ma si sentono anche fisicamente. Così tanta forma da sopperire alle mancanze di sostanza di una sceneggiatura, come detto sopra, senza le minime pretese intellettuali.
Se 45 anni fa Kubrick con la sua odissea introduceva quella claustrofobica (e giustificata fisicamente) mancanza di suoni ed esplosioni nel vuoto, oggi Gravity ripropone queste caratteristiche basandoci un intero film. Con stile da vendere.
In questi casi secondo me serve a poco giocare al piccolo astrofisico cercando di trovare tutte le cose che non vanno (frivolezze a dir poco). Per tutto il tempo che dura (appena meno del rischio stanchezza), il film regge ed è credibile. Ed è quello che conta.




Voto 7,5


voto redazione
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Gianluca: 7

Tu sola dentro la stanza e tutto il mondo fuori

“La vita di Adele” è la storia di una giovane donna, Adele (Adele Exarchopoulos) dalla candida ed irrequieta bellezza alla scoperta di se stessa e del proprio ruolo nel mondo.

Il film è sostanzialmente diviso in due capitoli, il primo, in cui Adele è un’adolescente che si scopre attratta da una ragazza dai capelli blu più grande di lei e con cui darà vita ad un’intensa storia d’amore, ed il secondo, quello della giovinezza, dell’insegnamento, della paura, della solitudine, del tradimento e del pianto.
Difficile per la giovane Adele trovare pace dall’ ardente passione che la spinge, lei divoratrice insaziabile di letteratura, di cibo e d’amore.
Un amore “diverso” ma anche l’imperfezione che la natura produce e figlia della natura stessa.
Dopo “La schivata”, “Cous Cous”, e la “Venere Nera”, Abdellatif Kechiche torna alla regia con questo piccolo capolavoro che è riuscito a conquistare la Palma D’Oro a Cannes 2013 e il mio entusiasmo.  
Mi piace la scelta del regista di stare “addosso” agli attori, all’attrice, con la stessa voracità con cui la ragazza divora la vita, di seguirla mentre dorme, parla, cammina, balla, protesta, mangia e fa l’amore.
Siamo vicini a lei con primi piani strettissimi, sui suoi occhi, sulla sua bocca, sulle sue ciocche di capelli scompigliati, con la forte sensazione di sentire i suoi sospiri, i suoi sorrisi, le sue lacrime come se stessimo ad un passo da lei. Anche il sesso con la sua amante, assoluto ed estremo è espressione di questa fame di vita e di emozioni.
La forza di Kechiche è di raccontare la vita con i tempi della vita stessa, perciò non importa se il film dura quasi 3 ore, perché sarei stato ancora li, ancora adesso, a seguire “la vita di Adele” a seguirla  mentre nell’ ultima inquadratura gira l’angolo e si allontana da noi e dall’ amore perduto.   


Voto 8

Roma città borderline

Il festival del cinema di Venezia, per la prima volta in 70 edizioni, ha selezionato un documentario in concorso, e lo ha persino premiato con il Leone d’Oro. Moto ondoso fra scorci abbacinanti e spazi ottundenti, né propriamente docu né totalmente fiction, più che un film: cinema, Sacro GRA di Gianfranco Rosi è uno spaccato della Roma borderline, con le sue storie di uomini ai margini di tutto. Eppure, questa accozzaglia di vite bizzarre, funziona.
GRA è l’acronimo per definire il Grande Raccordo Anulare, la più grande autostrada urbana d’Europa. Un “anello di Saturno” intorno alla città eterna, Roma. Già dal titolo si intuisce da quale punto di vista il regista investiga questo scenario urbano: l’inatteso miracolo di vita per un luogo che a prima vista sembra un simbolo della temporaneità e il crocevia di istanze esistenziali. Umane, troppo umane verrebbe quasi da dire.
Rosi, accarezza con poesia cinque microstorie di persone impegnate con passione a vivere la propria quotidianità. C’è il pescatore di anguille, il botanico che studia il punteruolo rosso, la transessuale che vive in roulotte, un nobile postmoderno, e il pensiero corre subito al dandy scrittore Jep Gambardella, a Dadina, alla ballerina attempata di un nightclub, alla giraffa, ai fenicotteri, a una vecchia santa, a un cardinale… perché Sacro Gra, è il contraltare semantico de La Grande Bellezza di Paolo Sorrentino. Dalla periferia urbana, ai superattici vista Colosseo, il cinema italiano racconta la  capitale attraverso i suoi estremi, gli emarginati, i paradossi, le sue mostruosità.
Ma se Rosi ci racconta una Roma fragile e sporca anche esternamente, quella di Sorrentino è allo stesso tempo rabbiosa e apatica solo dentro, forse.
Il successo di ‪Sacro GRA determina finalmente una ridefinizione della mappa dei limiti e luoghi in cui possiamo collocare e pensare la settima arte e conferma, se ce ne fosse bisogno, che Fare Cinema significa sempre comunque spostarsi e abitare spazi ancora non definiti e precari.
Rosi ci guida attraverso questo non-luogo con le sue inquadrature larghe, panoramiche, morbide e lente. Immagini che si contrappongono al frenetico e congestionato traffico del Raccordo. Un chiaro percorso narrativo, suggellato dagli eccellenti primi piani degli abitanti del GRA, che occhieggiano più all’espressionismo tedesco che non al neorealismo italiano.
Forse finalmente ci si è accorti che da almeno dieci anni in Italia (in Germania e in Francia sono molti di più), il documentario si sta facendo promotore di una vera e propria rinascita del cinema italiano. E che un’intera generazione di registi sta guidando questa rivoluzione. Anche se tutto questo fino ad oggi è avvenuto in un imbarazzante silenzio delle istituzioni che non ascoltano, raramente finanziano e difficilmente promuovono.
Un Leone d’Oro coraggioso quello assegnato al film di Rosi.
Davvero una scommessa vinta, in mezzo a tanto cinema spettacolo.






voto 8


voto redazione
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Presidente: 6.5 | Ang: 6 | Gianluca: 5.5 | Mercedeh: 5

L’amico ritrovato

Partendo dal presupposto che la filmografia di Ettore Scola costituisce il mio dna di cinefila; che il suo C’eravamo tanto amati, è il film che mi ha fatta appassionare alla settima arte; che Una giornata particolarealmeno una volta all’anno lo rivedo con la stessa emozione della prima volta; che come mi commuove La famiglia, nessun film ci riuscirà mai e che quando il Maestro ha dichiarato che non avrebbe più preso la cinepresa in mano, ho tenuto il lutto per diverso tempo, ecco, premettendo questo, potrete immaginare la mia felicità quando ho saputo di questo suo nuovo film e con quanta ansia e aspettative io l’abbia atteso.
Capirete allo stesso modo, che sarebbe per me difficile, se non addirittura impossibile essere totalmente obiettiva o –  sia mai –  avere delle riserve. Perché, ragazzi, stiamo parlando di Ettore Scola, che racconta Federico Fellini! Cioè, l’apoteosi del gusto! Cosa si potrebbe volere di più?
Mi sono quindi catapultata in sala appena è uscito, come i bambini la mattina di Natale corrono a scartare i regali sotto l’albero.
Allora, iniziamo a “scartarlo” questo Che strano chiamarsi Federico – Scola racconta Fellini.
Innanzitutto Scola non racconta Fellini, bensì racconta il suo Fellini. Un’operazione tutta soggettiva, nostalgica e affettuosa, come può esserlo solo l’omaggio di un amico e ne emerge il ritratto tutto personale di un uomo, un artista, un adorabile bugiardo e, a modo suo, un inguaribile Pinocchio mai cresciuto.
Ripercorriamo quindi la vita del regista di 8 e ½ da quando arrivato a Roma giovanissimo, trova lavoro come disegnatore presso il giornale satirico Marc’Aurelio, frequentato all’epoca da quelli che sarebbero diventati di lì a breve i migliori sceneggiatori e autori del panorama italiano e trampolino di lancio di moltissimi talenti, non ultimo proprio Scola. Assistiamo al racconto della loro amicizia formatasi negli anni, il bar notturno, il bagno Cobianchi, le facce viste, sviste, amate e detestate, e i volti immateriali, le grandi scoperte e i rivolgimenti storici. I cambiamenti culturali e il rapporto denso e stratificato, con il cinema. Le scorrazzate interminabili in auto (la famosa Lincoln) in giro per la città alla ricerca di contatti con persone comuni, prostitute, vagabondi che sono l’occasione per affidare alla vera voce del regista – carpita da alcune interviste – i suoi pensieri sull’arte, sul cinema, sulle donne. Da quel girovagare i due trovavano gli spunti per la creazione di storie, personaggi, battute e situazioni che poi inserivano nei loro capolavori, cucite addosso ai loro giganteschi attori. Il tutto condito con alcuni documenti d’epoca – i provini di Sordi, Gassman e Tognazzi per il Casanova, sono quanto di più divertente e meraviglioso abbia visto al cinema negli ultimi anni.
Scola riesce a oliare molto bene i passaggi da un linguaggio all’altro, dalla fiction al documentario, e costruisce una narrazione levigata e fruibile. E nella sua voce inconfondibile, risuonano come dolci note, la malinconia e il dolore per la perdita di un amico che in qualche modo però continua a vivere, con la sua voglia di inneggiare alla vita e all’arte, di salire alla fine, su una giostra.
Per cui, nonostante alcune scivolate – gli attori giovani piuttosto acerbi e una retorica forse schivabile ma comunque leale – (è pur sempre l’opera di un vecchio, grande Maestro ma, appunto, lontano dal cinema da anni) si esce dalla sala consapevoli che ci è stato fatto un grande dono. Di quelli preziosi, che rimangono per sempre e che non saremo mai in grado di contraccambiare.



voto 7


voto redazione
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Ang: 6.5

Postmaman

Devo ammetterlo, ho visto questo film perchè mi sono arrivate critiche piuttosto buone. Ma soprattutto perchè il cognome del regista mi fa molto ridere.

Per le piccole Victoria e Lilly non è proprio giornata. Il padre Jeffrey infatti, dopo aver stecchito un paio di colleghi e la moglie, le rapisce e durante la fuga in macchina finisce in un burrone. Miracolosamente illesi dopo un volo di diversi metri, i tre trovano riparo nella classica casetta sperduta in mezzo al bosco, dove li aspetta una minacciosa presenza. Accecato dalla follia l’uomo tenta di uccidersi, ma poi ricorda di non aver sparato alle figliolette e torna sui suoi passi. Proprio mentre la tragedia sta per consumarsi, il padre snaturato viene spedito al campo santo dalla misteriosa creatura celata nell’oscurità. Dopo cinque lunghi anni, le due bambine vengono ritrovate in condizioni non proprio eccezionali. Lucas, il fratello di Jeffrey e la sua compagna rock’n’roll Annabel decidono di occuparsene nonostante le resistenze della vegliarda nonna materna, pronta a mettere i bastoni tra le ruote alla giovane coppia. Le bambine fin dal loro arrivo nella nuova casa, fanno riferimento ad una figura materna che si presume immaginaria. Ben presto però, il furbo psichiatra intuisce che forse qualcosa trascende la mera fantasia delle piccole.

Prodotto da Guillermo Del Toro, La Madre vede la sua genesi nel cortometraggio di tre minuti Mamà, perfettamente realizzato dal talentuoso Andy Muschietti nel 2008.

Come in ogni storia di fantasmi che si rispetti, c’è qualcuno che non trova pace e non vuole proprio sentire ragioni di lasciare il mondo dei vivi senza tormentare tutti. La madre è un film che non ha nulla di originale e di certo non diventerà un fenomeno di culto; tuttavia la storia è narrata in modo efficace e la sua struttura sostiene piuttosto bene la tensione che permea tutto il film senza mai venire meno. I personaggi sono costantemente esposti al pericolo, Jessica Chastain è un amore con quella t-shirt dei Misfits e la piccola Lilly mangia falene di notevoli dimensioni. Questi sono gli elementi alla base di un horror decervellato ma ben fatto e ragionato per essere puro intrattenimento. Non serve di più. Non serve cercare sottotesti o introspezioni perchè non ce ne sono. L’obiettivo della premiata ditta Del Toro e Muschietti, perfettamente raggiunto, è quello di immergere gli spettatori in un clima di angoscia per liberarlo immediatamente al termine della visione.

Il ritmo è lento e costante mentre la suspense resiste bene fino all’epilogo non proprio avvincente e teso al melò più selvatico.
Interessante la costruzione delle sequenze operata dal giovane regista che non lesina inquadrature e piani sequenza mediamente buoni. Anche la fotografia, molto curata, contribuisce all’estetica e all’efficacia del film, così come il cast dove spiccano, ovviamente, Megan Charpentier e Isabelle Nèlisse le terribili bambine tutte storte.

Ideale per passare una serata con moltebirrette e poche pretese, questo film si rivelerà ben più piacevole di tante altre monnezze di genere buone solo per le ammucchiate da multiplex. Divertente.


voto 6.5



Vedere solo il cielo

Premiato dal pubblico del Sundance l’anno scorso, parzialmente snobbato dall’Accademy e tratto dall’autobiografia del giornalista e poeta Mark O’Brien, morto a 48 anni dopo aver passato gran parte della sua vita in un polmone d’acciaio causa polio contratta da bambino, The Sessions si confronta con un tema scomodo e ancora disturbante: il sesso dei disabili. O, se preferite, il diritto al sesso dei disabili. E lo fa senza lanciare proclami, e senza ergersi a opera-manifesto. Non si fa bandiera di nessuna rivendicazione, si limita a raccontare la storia di O’Brien e della sua (sofferta) decisione di avere una vita sessuale. E lo fa magnificamente, con intelligenza, ironia e coraggio. Tant’è che la sceneggiatura dovrebbe diventare oggetto di studio nelle scuole italiane di cinema. I dialoghi tra Mark e l’amico prete sono magnifici, lo stesso quelli con Amanda, badante e suo primo amore.
Il tutto servito in una ricostruzione minimalista del periodo a cavallo tra gli anni Ottanta e Novanta di una California, da tempo immemorabile, terra di ogni sperimentazione sessuale (e qui siamo a Berkeley). E quindi credete che non ci sia una risposta e una soluzione ai bisogni di Mark? E infatti, ecco spuntare una sex therapist, no, non una sessuologa, no, non una terapeuta di quelle che curano attraverso la conversazione e l’analisi. No, la sex therapist è una che insegna ai principianti come si fa l’amore, andandoci a letto.
Nell’incredibile California quindi, non solo c’è la professione della sex therapist, ma anche quella della sex therapist specializzata in disabili gravi. Sicché, quando sullo schermo si materializza Helen Hunt, disposta (a pagamento e in un numero limitato di sedute: sei) a insegnare il sesso a Mark e praticarlo con lui, restiamo un attimino stupiti di come la liberazione sessuale anni Sessanta-Settanta sposata alla cultura dei diritti delle minoranze, sia arrivata così lontano, creando specializzazioni fino a prima impensabili.
Ora, il film è ricchissimo di testi e sottotesti, di quelli che ti pongono di fronte a questioni non del tutto inutili, anzi, però è chiaramente figlio della cultura americana del “puoi avere tutto quello che vuoi, basta perseguirlo con tenacia”, e difatti Mark raggiunge, pur nelle condizioni di disagio estremo in cui si trova, l’obiettivo che si era prefissato. Siamo, quindi, di fronte all’ennesima versione-reincarnazione del Sogno Americano, Mark è l’ennesimo American Dreamer, e a svelarlo è il tono ottimistico e de-problematizzato della seconda parte del film. Vorremmo tanto crederci, insomma, ma, da cinici europei, proprio non ci riusciamo.
John Hawkes domina il film. La prima volta che l’ho visto me ne sono innamorata: timido, allampanato, con barba incolta, vendeva scarpe nel film d’esordio della videoartist Miranda July, Me and You and Everyone We Know, nel lontano 2005. Una presenza sfuggente, di quelle che ti vien da dire “Interessante, io questo qui l’ho già visto da qualche parte, ma dove esattamente?” Di film in film, questa presenza si è addensata in ruoli sempre più visibili: protagonista in film meglio distribuiti e premiati (Un gelido inverno) e The Sessions è, in questo senso, il film della conferma, che ha reso finalmente celebre quest’attore ossuto, alla soglia dei cinquanta, schivo ma con uno sguardo penetrante, di quelli che ti fanno risistemare sulla sedia se li incroci.
Ottima anche l’interpretazione di Helen Hunt (nominata a un Oscar nella categoria Attrice Senza Speranza Ma C’era Un Posto Libero) e di William H. Macy perfettamente a suo agio con una pettinatura improbabile, grandissimo come saggio prete irlandese che capisce che le regole di Santa Madre Chiesa ogni tanto possono e devono essere infrante. 
O quantomeno, aggirate.

voto: 7,5

Cari amici vi scrivo

Cari amici, vi scrivo per parlarvi di questo film ché qualche volta vale la pena, andare al cinema per concedersi un piccolo film, che ci riconcilia con noi stessi. Sarebbe piaciuto molto anche a voi. È ambientato nei primi anni ‘90 e poi è una storia teen, che tratta delle difficoltà ma anche i vantaggi di essere un wallflower, uno che fa tappezzeria, un ragazzo da parete, uno che non fa parte dei tipi cooldella scuola. Uno come eravamo noi. 
Charlie è un adolescente timido e impacciato, che legge molto e parla poco: comincia, con molte ansie, il primo anno di liceo, sperando di farsi degli amici. Ha alle spalle una famiglia un po’ distratta, un trauma recente (il suicidio del suo migliore amico) e un ricordo ossessivo: la zia, morta quando lui era piccolo. Charlie, si lega ai fratellastri Patrick e Sam: lui, omosessuale un po’ dandy, un po’ sornione; lei bella e tormentata. 
Noi siamo infinito, ricorda vagamente Donnie Darko, ma senza la componente fantascientifica e horror e ricorda anche Il giardino delle vergini suicide, ma con tinte più comedy
Fedele ritratto degli adolescenti, delle tipiche contraddizioni di chi è spaventato dal futuro, delle frustrazioni e speranze sentimentali, proprie di quell’età e non solo. 
“Accettiamo l’amore che pensiamo di meritare” è la bella risposta del professore di letteratura (Paul Rudd, bravo e sotto le righe), quando Charlie, gli chiede perché esiste l’amore non corrisposto o, ai propri occhi, ingiusto.
Avreste di certo adorato i tre protagonisti, tre dreamers ovviamente meno incasinati sessualmente di quelli di Bertolucci. Il protagonista, Logan Lerman, è il classico ragazzino su cui non avreste scommesso due euro nemmeno voi. Eppure è perfetto nella parte del wallflower. Il meglio arriva comunque con i due comprimari. La maghetta Emma Watson passa l’esame di maturità. In questo film illumina la scena. E poi c’è Ezra Miller, il ragazzino disturbato dei raggelanti Afterschool e …E ora parliamo di Kevin, alle prese, qui, con un personaggio originale, sempre sopra le righe, uno che recita la parte del “dolce travestito” del The Rocky Horror Picture Show e che prende per il culo i professori. La sua interpretazione è qualcosa di fenomenale, mi ha ricordato l’energia anarchica di Heath Ledger ai tempi dei suoi esordi teen in 10 cose che odio di te. In quel caso, l’ispirazione del film veniva dal Bardo Shakespeare. In questo film, invece, l’ispirazione è decisamente più recente.
The Perks of Being a Wallflower, questo è il titolo originale, è infatti sceneggiato e girato da Stephen Chbosky – non chiedetemi come si pronuncia il cognome – a partire da un suo stesso romanzo epistolare, uscito in Italia con il titolo Ragazzo da parete. Un romanzo parecchio discusso, negli Usa e che è diventato un piccolo grande cult, negli Usa. In Italia invece è passato piuttosto inosservato, ma la cosa certo non vi sorprenderà.
Le parole comunque non credo possano bastare per riportare tutta la poesia di questo film, il suo riuscire a raccontare in maniera perfetta il periodo dell’adolescenza, sia nel suo lato più complicato, sia nello stupore di vedere e fare cose per la prima volta. 

Cari amici, mi sarebbe insomma piaciuto molto vederlo con voi, questo Noi siamo infinito, Ragazzo da parete, The Perks of Being a Wallflower o come preferite chiamarlo. Per il gusto della nostalgia e il fascino senza tempo dell’adolescenza. Perché al diavolo i premi e i tappeti rossi di Hollywood: anche senza, si può raccontare una storia bella.
E insomma, perché, ogni tanto, fa bene ricordarsi quando si era un po’ meno cinici e scontati, e un po’ più sognatori e infiniti.

Sinceramente vostra,
Chiara

voto 7


voto redazione
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Ang: 6

Lacrime in quantità monsonica

Ne hanno fatta di strada gli “umiliati” e gli “offesi” di Victor Hugo. Dagli schermi cinematografici ai palcoscenici di Broadway, la storia di Jean Valjean e compagni, è stata esplorata in lungo e in largo, con un successo talmente grande da convincere Hollywood a metterne in cantiere una nuova versione, questa volta “remake” dell’omonimo musical.
Per dirigere questo film, così atteso e ingombrante, è stato chiamato Tom Hooper, regista de Il discorso del re – quello che ha fatto una gran rapina di Oscar due anni fa – e con il quale ho un conto aperto, anche solo per il semplice motivo che di tutte le cose che non mi vanno giù de Il discorso del re, quella che mi va giù meno, è proprio la regia. Ma passiamo oltre.
Chiaramente con un film del genere, la preselezione è già attiva: non vi piacciono i musical? State a casa. Giuro che se incontro ancora qualcuno che dice “ho visto Les Mis, ma che noia, cantano sempre” lo schianto di sberle. Certo che cantano sempre. È un musical! 
Se vi piace il genere, invece, è facile che andiate a vederlo per sentire le canzoni. La cosa più interessante, in tal senso, è che i pezzi sono stati registrati in presa diretta, una pratica utilizzata poche volte e che, per quanto mi riguarda, è in assoluto il valore aggiunto del film (e questo nonostante il fatto che come cantante, Russel Crowe è una campana a morto).
Ma il vero plus resta la storia infinita, smisurata, gigantesca di Victor Hugo, così mastodontica da resistere a tutto, a ogni trattamento registico e interpretativo (come resistono a tutto Shakespeare e Dickens), in grado ancora nel suo populismo e nel suo manicheismo primario – di qua il bene di là il male, di qua i buoni di là i cattivi – di sedurre e commuovere fino alle lacrime. Dio mio, come potrebbe essere altrimenti, c’è di tutto dentro: la colpa, la redenzione, l’amore, la rivolta dei buoni contro i malvagi, il potere corruttore dei soldi e la purezza e l’innocenza degli ultimi, dei misérables, fango dell’umanità e insieme sua più luminosa essenza.
Tom Hooper non è capace di una invenzione registica che sia una – questo è chiaro – è grossolano e approssimativo, però mette in scena questo Classico senza tempo, con la rude efficacia di un vecchio capocomico che sa come vellicare il pubblico e strappargli l’applauso. Les Misérables, al di là degli effettacci digitali, è puro spettacolo popolare: fatto apposta per essere detestato dai critici e amato dal pubblico.
Il film gode inoltre di una manciata di buone interpretazioni: Anne Hathaway qui è davvero bravissima e la notte del 24 febbraio, festeggerò se riuscirà a portarsi a casa (anche a discapito della mia adorata Amy Adams) l’Oscar come miglior attrice non protagonista; Hugh Jackman se la cava bene, ma nel suo caso l’Oscar sarebbe davvero eccessivo. Bravi poi Sacha Baron Cohen ed Helena Bonham Carter (entrambi già nel musical burtoniano Sweeney Todd), due ottimi guitti, protagonisti dei siparietti più divertenti. A colpire in positivo, sono anche i volti più nuovi: il bambino Daniel Huttlestone e l’emergente Samantha Barks nel ruolo di Eponine, che arriva direttamente dalle versione concertale del musical. E poi ecco, volevo dire solo altre due parole, e queste due parole sono: Aaron Tveit. Ecco.
Insomma, a questo Les Misérables bisogna lasciarsi andare, mettendo tra parentesi ogni pretesa bon ton o di raffinatezza narrativo-estetica, bisogna lasciarsene travolgere senza opporre resistenza. La commozione finale sarà inevitabile e vigorosa. Anche i meno sensibili, usciranno dalla sala con gli occhi lucidi e una manciata di kleenex in mano. 


voto: 7

Amore.

Misurarsi con Michael Haneke è un pò come entrare in un ring con un pugile scafato, sai in anticipo che verrai brutalizzato senza pietà. Fuori dal piccolo cinema si incrocia la folla in uscita. A poco serve ignorare i volti scossi di chi, alla fine del suo tristo giro con la pietà, ti lascia volentieri il posto. Gli abituali schiamazzi da critici di serie b sono morti, stecchiti da un silenzio che è già la colonna sonora del film. Il resto lo fa il freddo, in una serata perfetta per amare la settima arte.
Georges (Jean-Louis Trintignant) e Anne (Emmanuelle Riva) sono una coppia di insegnanti di musica in pensione. La loro vita trascorre serenamente e, tra letture e concerti, trovano saltuariamente la compagnia dei loro ex allievi e della figlia Eve (Isabelle Huppert). Il loro rapporto viene però sconvolto da un ictus che colpisce Anne rendendola invalida. La donna sarà totalmente assistita dal marito che, con assoluta devozione, la accompagnerà nel difficile decorso della malattia.
Giustamente premiato con la Palma d’oro al 65° Festival di Cannes, Amour è una lenta immersione nelle torbide acque del fine vita e della sofferenza. Haneke, regista e sceneggiatore del film, sceglie con coraggio di raccontare una storia di vecchi soli e devastati dal male, puntando il dito contro una società in fuga dalle sue paure e confermando per l’ennesima volta il suo talento nel sollecitare i nervi più sensibili degli spettatori. 
Attraverso una narrazione algida e minimale, fatta di lunghi piani sequenza e movimenti di macchina ridotti al minimo, il regista chiude i suoi personaggi in una teca inaccessibile, evocando i tempi della malattia e della morte. Con l’impotenza di chi può solo aspettare, si assiste al disfacimento dei corpi e delle menti dei protagonisti; il dramma non è più sul grande schermo, ma vive nello spettatore. Anne e Georges sono soli, senza figli o infermieri, senza Dio. Tra loro però esiste e resiste un grande rispetto; il frutto di un amore assoluto e vero, il solo scudo con cui difendersi nei momenti più difficili dell’esistenza terrena. 
Gigantesco Jean-Louis Trintignant, che mette anima e corpo in quello che ha egli stesso definito il ruolo più difficile della sua carriera. L’interpretazione, fortemente contenuta, impreziosisce lo spessore emotivo della storia e restituisce senza cadere nel patetico, il dramma di un uomo. 
Amour è un film che parla di molto, ma soprattutto d’amore. O di ciò che ne resta, dopo la tempesta della vita. Ostile come ogni opera del maestro austriaco, saprà rivelarsi una splendida esperienza se affrontato con la giusta preparazione. Commovente e prezioso, è un film che si vede una sola volta, quel tanto che basta per restare frastornati e stupirsi delle vette che il cinema vero può ancora raggiungere. Magnifico.  


voto 9


voto redazione
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Chiara: 9 | Ang: 8.5

Ben fatto Tornatore!

Giuseppe Tornatore torna nelle sale. Dopo La sconosciuta del 2006, il suo film più crudele e straziante, dopo Baaria del 2009, il film più grandiosamente mediocre della storia del cinema Italiano,  debutta con il digitale ne La migliore offerta, decisamente più intrigante e coinvolgente. Certo, già dai titoli di testa Ennio Morricone ci trascina in un mondo melodrammatico, quello del regista, che, nonostante abbandoni la bella Sicilia per un’ambientazione  mitteleuropea, non riesce a discostarsi da quello stile barocco  e  talvolta eccessivamente pomposo, che più lo caratterizza. Tutta girata in lingua inglese, una storia dal meccanismo pulito e avvincente vista dagli occhi del protagonista,  figura davvero ben costruita interpretata da  Geoffrey Rush (bravissimo), raffinato banditore d’aste e conoscitore dell’arte, nonché collezionista di ritratti di donne (Tiziano, Raffaello, Modigliani,  Ingres e tantissimi altri) che tiene in sicurezza in un bunker nel suo appartamento, Virgil Oldman, ha delle serie difficoltà a rapportarsi con il reale mondo femminile, nonostante sia un uomo eccentrico, intelligente e apprezzato da tutti, è un uomo solo, fino a che non incontra,  innamorandosi, una giovane con un problema di agorafobia, vive rinchiusa in una villa decadente e maestosa, come uno dei ritratti di Oldman.
I volti muti nei dipinti, la follia di una donna che si nasconde dal mondo, la decadenza dei luoghi, contribuisco a dipingere un quadro carico di sospetti e misteri che non si svela fino alla fine, con una morale amarissima che cela, per pietà, una speranza (o una tragedia?), l’amore, un’opera d’arte unica nel suo essere, poiché irriproducibile, un amore che travolge e distrugge, che riesce a guarire un uomo incapace di provare ogni sentimento per il reale, un amore che inganna. Una continua suspense, che omaggia l’estetica nel senso Kantiano del sublime, ma soprattutto un cinema italiano che abbandona per una volta l’amaro realismo, (finalmente), abbracciando un genere che aveva un po’ dimenticato, (diciamo da Pupi Avati)  la favola nera. Una favola costruita minuziosamente,  un intreccio narrativo carico di tensione tipico di Argento, una regia rigorosa, ma soprattutto un personaggio forte che trascina il pubblico in un incastro fatto di meccanismi, di ingranaggi metafisici,  di intrecci tra il reale (la tragedia) e l’irreale (la purezza dell’arte, che altro non è che mera riproduzione della realtà). Un successo meritato, un Tornatore maturo e intelligente, sempre vagamente baroccheggiante. (Ma dopo Baaria, ci sarebbe piaciuto tutto?)
Voto: 7


voto redazione
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Chiara: 7